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  Rassegna stampa  

 
  • Via chi ha raggiunto i limiti d'età, dalla pensione non si scappa più

La circolare della Madia: entro il 28 febbraio la notifica dei dirigenti

ItaliaOggi, del 24-02-2015, di Nicola Mondelli

Ennesimo tentativo del ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, Maria Anna Madia, di favorire condotte omogenee da parte delle pubbliche amministrazioni nell'applicazione delle più recenti modifiche legislative intervenute in materia di soppressione dell'istituto del trattenimento in servizio e di risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro.
Con la circolare n. 2 del 19 febbraio 2015 il ministro Madia ha infatti fornito una serie di indicazioni sulle modalità di applicazione delle novità legislative, sia con riferimento all'abrogazione dell'istituto del trattenimento in servizio oltre l'età pensionabile, che alla disciplina della risoluzione unilaterale del rapporto. Che l'intervento del ministro fosse necessario, soprattutto con riferimento al comparto scuola, lo dimostra la sollecitudine con la quale alcuni uffici scolastici territoriali hanno immediatamente portato a conoscenza dei dirigenti scolastici i contenuti della circolare ministeriale con l'invito perentorio a darne immediata applicazione per quanto di loro competenza.
Per i dirigenti scolastici i chiarimenti contenuti nella circolare ministeriale impongono l'emissione di provvedimenti che devono essere posti in essere perentoriamente entro sabato prossimo, 28 febbraio. È entro questa data, infatti, i dirigenti scolastici dovranno fare pervenire ai docenti e al personale Ata interessati, ancorché in servizio con contratto a tempo indeterminato, il preavviso di risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro con effetto dal 1° settembre 2015. Un preavviso notificato successivamente sarebbe nullo e non produrrebbe gli effetti, indicati in premessa, voluti dal legislatore. Nei soli confronti del personale della scuola il preavviso di risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro non è utilizzabile in qualsiasi momento, come avviene invece, per gli altri pubblici dipendenti, ma solo entro e non oltre il 28 febbraio, conditio sine qua non per accedere al trattamento pensionistico che nei confronti del personale della scuola può decorrere solo dal primo giorno dell'anno scolastico successivo a quello di cessazione dal servizio.
Presupposto per la risoluzione unilaterale è il possesso del requisito contributivo richiesto dalla normativa vigente – decreto legge 201/2011 e successive modificazioni - per il conseguimento della pensione anticipata (nel 2015, 42 anni e sei mesi per gli uomini e 41 anni e sei mesi per le donne). Il ministro Madia ribadisce che il personale della scuola che ha maturato il requisito per l'accesso al pensionamento entro il 31 dicembre 2011 rimane invece soggetto al regime previgente. Nei confronti di questo personale l'amministrazione scolastica potrà pertanto legittimamente esercitare il recesso al raggiungimento del 65° anno di età entro il 31 agosto 2015, nonché al conseguimento dell'anzianità contributiva di 40 anni di servizio. In tutti i casi, la eventuale decisione di risolvere il rapporto di lavoro deve essere motivata con riferimento alle esigenze organizzative dell'istituzione scolastica.
Altra conferma è la persistente abrogazione/soppressione dell'istituto del trattenimento in servizio oltre i limiti di età richiesti dalla normativa vigente (65 anni per coloro che beneficiano della normativa previgente l'entrata in vigore della riforma Fornero), 66 anni e tre mesi per quanti sono soggetti alla normativa in vigore( decreto legge 201/2011 e successive modificazioni). Il rapporto di lavoro potrà invece proseguire nel caso in cui il dipendente non maturi alcun diritto a pensione al compimento dell'età limite ordinamentale o al compimento del requisito anagrafico per la pensione di vecchiaia. In tal caso potrà rimanere in servizio, per maturare i requisiti minimi per l'accesso alla pensione, non oltre il raggiungimento dei 70 anni di età (limite al quale si applica, si legge nella circolare, l'adeguamento alla speranza di vita.


  • Assunzioni, incognita mobilità

Per le nuove immissioni, nessun vincolo geografico e trasferimenti bloccati per tre anni. Cambiare scuola sarà necessario anche per gli aumenti

ItaliaOggi, del 24-02-2015, di Carlo Forte

Cambiare sede non più solo per avvicinarsi alla famiglia. La mobilità dell'era Renzi porrà in cima alla classifica la ricerca del posto fisso e degli aumenti di stipendio. Secondo gli annunci fatti dal governo sulle nuove immissioni in ruolo, in attesa di trovare conferma nel testo del decreto legge sulla Buona scuola al consiglio dei ministri di venerdì prossimo, non seguiranno più la logica territoriale delle graduatorie provinciali a esaurimento. Agli aspiranti docenti aventi titolo assunzione a tempo indeterminato, infatti, saranno offerte cattedre lì dove risulteranno ubicate le disponibilità. A prescindere dalle province (e dalle regioni) dove gli aspiranti abbiano presentato la domanda. E non sarà considerato un limite nemmeno la classe di concorso.
Per agevolare ulteriormente l'individuazione delle disponibilità, laddove non sarà possibile assumere i docenti nella classe di concorso per la quale hanno i titoli, sarà loro offerta l'immissione in ruolo in classi affini. Ma per ritornare a casa dovranno comunque seguire le regole previste per la mobilità a domanda. Regole che, giova ricordarlo, non sono state scritte al tavolo negoziale da amministrazione e sindacati, ma direttamente dal legislatore. Si veda a questo proposito l'articolo 15 comma 10 bis del D.L. 104/2013. Che non può essere derogato dalla contrattazione collettiva, perché nel 2009, la legge 15 ha cancellato tale facoltà. Pertanto, chi sarà immesso in ruolo fuori provincia, con effetti a far data dal 1° settembre 2015, non potrà presentare la domanda di trasferimento per ritornare nella provincia di residenza per tre anni. Sempre che, nel frattempo, la legge non subisca ulteriori modifiche (prima il limite di permanenza era di 5 anni). Fin qui la mobilità ai fini delle immissioni in ruolo e la disciplina dei trasferimenti interprovinciali di chi otterrà l'immissione in ruolo dal prossimo 1° settembre.
E poi c'è la mobilità dei docenti di ruolo in generale. Che almeno per quest'anno non dovrebbe subire modifiche. Non fosse altro per il fatto che il ministero dell'istruzione sta già lavorando alle funzioni per consentire agli interessati di presentare le domande. E la relativa ipotesi di contratto è stata sottoscritta il 26 novembre scorso.
Ma dal prossimo anno dovrebbe essere prevista un'ulteriore opzione: il passaggio dall'insegnamento su cattedra all'organico funzionale. Secondo gli annunci del governo, tale passaggio dovrebbe consentire al docente interessato di essere svincolato dall'insegnamento curriculare. La sua funzione, infatti, dovrebbe essere quella di sostituire i colleghi assenti e di svolgere il lavoro al quale si dedicano attualmente i collaboratori del dirigente. A ciò va aggiunta un'ulteriore opzione: il trasferimento finalizzato alla maturazione degli scatti di carriera. Il governo, infatti, ha intenzione di abbassare l'importo dello stipendio dei docenti, cancellando gli adeguamenti retribuitivi legati al crescere dell'anzianità di servizio. Stando a quanto si è saputo, nella nuova progressione di carriera, l'anzianità di servizio dovrebbe assumere un ruolo marginale. Mentre a farla da padrone dovrebbe essere il cosiddetto merito. Ciò determinerà l'attribuzione degli aumenti solo ad alcuni. E quindi chi resterà fuori dovrà necessariamente ritentare cambiando scuola, sperando di essere più fortunato.
Fino ad oggi, non sono stati ancora resi noti i provvedimenti che dovrebbero fissare la nuova disciplina retribuiva dei docenti. Secondo quanto risulta a Italia Oggi, però, le nuove regole non saranno scritte al tavolo negoziale, ma direttamente dal governo.
E dunque, l'esecutivo starebbe sul punto di dare il colpo di grazia al contratto collettivo di lavoro dei docenti. Dopo i colpi micidiali inferti dalla legge 15/2009 e dal decreto Brunetta, infatti, l'unica materia che era rimasta saldamente ancorata al tavolo negoziale era la disciplina delle retribuzioni.
E dunque, se il governo interverrà per legge anche su questo, la contrattazione collettiva andrà in pensione definitivamente.


  • I vicoli ciechi del merito

Molte voci sul Cdm di venerdì che approverà un Ddl e una legge delega sulla scuola. I docenti neoassunti potrebbero non essere 148 mila.

Il manifesto, del 24-02-2015, di ro. ci.

 ROMA Alla kermesse Pd sulla scuola organizzata domenica scorsa nell'auditorium di via Palermo a Roma Renzi ha ribadito che «gli scatti di merito per gli insegnanti sono giusti». Proprio quelli che la consultazione online sulla «Buona Scuola», che ha impegnato per mesi il governo, ha bocciato. I160% dei partecipanti a quella che è stata definita, con un filo d'enfasi, «una grande consultazione», ha bocciato il piano di Renzi sugli scatti stipendiali maturati in base al «merito» individuale e non sull'anzianità dei servizio. Il 46% è per un sistema misto su stipendio e merito, il 14% per l'anzianità. L'opposizione della «base» telematica auscultata dal governo è comprensibile. Secondo le intenzioni dei meritocrati al governo, la riforma prevederebbe aumenti stipendiali fino a 60 euro ogni tre anni, ma solo per i 2/3 degli insegnanti (il 66%). E non è detto che gli aumenti agli stipendi tra i più bassi dei paesi Ocse arriverebbero sempre alle stesse persone ogni triennio. Stando al progetto iniziale della riforma, la valutazione del «portfolio di crediti e titoli» dei docenti dovrebbe essere effettuata all'interno degli istituti da un nucleo specializzato. Al termine di questo esame, l'interessato potrebbe trovare una brutta sorpresa. Secondo una serie di proiezioni, pubblicate da tempo su riviste specializzate come «Orizzonte Scuola», al nono anno il docente pur meritevolissimo potrebbe essere scavalcato in classifica da un collega valutato diversamente. Sempre che questo non accada già al terzo o al sesto anno. Nel sistema competitivo concepito sotto il governo Renzi, lo stipendio sarà una questione di probabilità. Entrare nel 66% dei docenti premiati non è da tutti. E non può essere per sempre. Poi c'è l'aspetto oscuro della riforma, di cui pochi ancora parlano. In questo sistema saranno tutti a perdere a turno. Secondo le proiezioni, infatti, un docente con 42 anni di servizio potrebbe arrivare a perdere fino a 26 euro mensili, 312 all'anno. E lo Stato potrebbe risparmiare 200 milioni annui per 650 mila docenti. Queste sono le ragione della bocciatura alla quale il Partito Democratico, pur abbozzando, aveva promesso di rimediare all'indomani della sonora sconfitta. L'ipotesi sarebbe quello di adottare un sistema misto (merito+anzianità) di cui, ad oggi, non si conosce ancora il contenuto. L'uscita di Renzi di domenica, scorsa sembra avere cancellato questo difficile passaggio per la sua riforma, ma il problema resta. In attesa del consiglio dei ministri di venerdì 27 che approverà un decreto legge e disegno di legge delega, non hanno risolto uno dei nodi principali della «riforma», l'aritmetica politica che governerà la «meritocrazia» nella scuola «per i prossimi trent'anni». Questo è il respiro che Renzi intende dare al suo operato. Per ragioni comprensibili alla propaganda i chiaroscuri sono stati messi in secondo piano e ci si è soffermati più volentieri sulle cifre dei docenti neo-assunti dal 1 settembre. Per loro è stato stanziato circa 1 miliardo di euro nel 2015, altri 3,7 quelli ancora attesi. Una° stabilizzazione mai vista in Italia, sulle cui cifre oggi non c'è certezza. Per mesi si è parlato di poco più di 148 mila assunzioni dalle graduatone in esaurimento (GaE). Oggi si oscilla tra le 120 mila e le 134 mila, comprensive dei vincitori del «concorsone» del 2012 e degli idonei. Di questi, tra i 100 e i 110 mila arriverebbero dalle GaE che però non saranno svuotate del tutto, a differenza di quanto promesso. Lo saranno secondo necessità: il numero delle cattedre (tagliate dalla riforma Gelmini) e dall'effettiva disponibilità dei fondi stanziati. Se così fosse, questo significa che, al momento, il governo non ha i soldi per fare le assunzioni annunciate. La riduzione del numero dei neo-assunti dalle GaE è avvenuto in ragione della sentenza della Corte di Giustizia Europea del 26 novembre scorso che ha imposto all'Italia di assumere i circa 90 mila docenti precari che hanno maturato 36 mesi di servizio negli ultimi cinque anni nel rispetto della direttiva europea 70 del 1999 contro la reiterazione dei contratti a termine. Il governo sembra essere intenzionato ad assumerne dai 14 ai 28 mila. E solo una minima parte lo sarà dal primo settembre. Questo significa che è possibile un piano pluriennale di assunzioni e che le supplenze non spariranno. A tutto questo bisogna aggiungere gli altri precari, che pur avendo i titoli e le abilitazioni, non sono rientrati nelle GaE e restano nella seconda fascia. Su questa categoria ci sono altre voci. Il listino delle quotazioni parla di 2 mila supplenti su posto vacante nell'organico di diritto: 755 dalla seconda fascia, 163 dalla terza. Dalle GaE sarebbero 873 in possesso del requisito (avere lavorato più di 36 mesi). Cifre irrisorie rispetto ai 90 mila esclusi. Dal Cdm dovrebbe arrivare anche un nuovo regolamento sulle classi di concorso, oltre alla conferma di un nuovo concorso nel 2016 per assumere altri 40 mila insegnanti. In attesa di venerdì, mentre al Miur si macinano bozze su bozze, restano alcune, forti, certezze. Per i docenti resta il `blocco del contratto, fermo al 2009, gli stipendi più bassi d'Europa. Da questo tourbillon di anticipazioni, resta escluso il personale Ata.


I nuovi prof un anno in prova. E il preside diventa sindaco

Selezione, risorse, materie: tutti i nodi della riforma della scuola

Corriere della sera.it del 07-01-2015, di Orsola Riva

Di rinvio in rinvio, la grande riforma della scuola di Matteo Renzi dovrebbe finalmente vedere la luce alla fine di febbraio. Lo ha annunciato il premier due giorni fa. Gli ingredienti sono noti. Primo: assunzione in blocco di quasi 150 mila «precari storici». Secondo: introduzione del merito: a essere valutati non saranno più solo gli studenti ma anche i prof e il loro stipendio varierà di conseguenza (ma su quali basi e chi darà loro le pagelle è ancora tutto da chiarire). Terzo: potenziamento di alcune materie — arte, musica, informatica, inglese — e più ore per laboratori e stage in azienda. Ultimo ma non ultimo — Renzi ci ha messo la faccia fin dal suo insediamento — l’edilizia scolastica. Tutti ingredienti più che «buoni» sulla carta, ma basteranno a mettere davvero in sicurezza la scuola italiana e i nostri figli? I nodi da sciogliere sono ancora tanti. Vediamo i principali.
Stabilizzazione dei prof
I 150 mila neo assunti saranno tutti all’altezza del ruolo? Molti di loro (uno su cinque) non insegnano più da anni, altri hanno abilitazioni per materie ormai uscite dai programmi. L’allarme lanciato dagli esperti è stato raccolto anche dal governo. «Forse dal piano di assunzioni — ammette il sottosegretario Davide Faraone — si potrebbero escludere i docenti di materie non più utili come la dattilografia». E tutti gli altri? Bisognerebbe formarli. Sì, ma con quali soldi? E allora ecco che si profila una soluzione più drastica: il cosiddetto anno di prova previsto per legge ma finora solo sulla carta. «Quell’anno deve diventare decisivo per la permanenza dei neoassunti», taglia corto Faraone. Più facile a dirsi che a farsi: come non immaginare la valanga di ricorsi da cui sarebbe sommerso il ministero?
Gli esclusi
Se è vero che l’assunzione dei precari storici è stata pensata per sanare un’ingiustizia, in realtà ne apre un’altra. Ci sono infatti decine di migliaia di prof (circa centomila) che prestano servizio nelle nostre scuole ma sono rimasti tagliati fuori. Loro dovranno aspettare il concorso del 2016. Unica concessione al vaglio del governo: una «quota riservata» dei 40 mila posti in palio.
Il merito
È la vera incognita della riforma. Nel testo della Buona Scuola si era ipotizzata l’eliminazione tout court degli scatti di anzianità per un sistema in teoria incentrato appunto sul merito in realtà alquanto arbitrario: scatti ogni tre anni a due prof su tre, i «migliori» di ciascuna scuola. La norma è saltata, gli scatti di anzianità sono tornati al loro posto (anche se Faraone precisa che sullo stipendio peserà molto di più la quota premiale legata al merito) e soprattutto non è chiaro chi valuterà cosa. Su tutto il sistema, però, dovrebbe vigilare il preside, nuovo «sindaco della scuola».
Nuove materie
Va bene puntare su musica, storia dell’arte ed educazione fisica (20 mila nuove cattedre) e pure sul «coding» (la programmazione informatica tanto sbandierata anche se ammonta ad appena un’ora di lezione all’anno) ma com’è che nessuno si preoccupa dei pessimi risultati dei nostri figli in italiano e in matematica? «I dati Invalsi e Ocse dicono che i ragazzi italiani non sanno leggere: dovrebbero maneggiare non solo testi letterari ma anche scientifici, mentre noi continuiamo a insegnare loro a contemplare i libri, non a capirli. Molti dei problemi in matematica hanno origine nella difficoltà di lettura: spesso i risultati peggiori i ragazzi li danno non sulle domande più ostiche ma su quelle che hanno una forma meno scolastica», dice il professor Matteo Viale, docente di linguistica italiana all’Università di Bologna. Bisognerebbe adottare una nuova didattica trasversale, ma di didattica nella Buona Scuola di Renzi non si parla proprio.
Scuola-lavoro
Altro mantra del governo che più volte ha detto di volersi ispirare al cosiddetto «sistema duale» tedesco, anche se nella legge di Stabilità sono saltati i 10 milioni che dovevano servire a raddoppiare le ore di alternanza. Vedremo nel decreto di fine febbraio. Con una avvertenza: l’Italia non è la Germania ed è bene che il governo vigili sulle storture già in atto (vedi i 2.700 studenti del Centro-Sud che venivano sfruttati come manodopera a basso costo da alberghi e ristoranti del Nord proprio dietro lo schermo dell’alternanza scuola-lavoro).
Edilizia scolastica
Infine i muri, la grande scommessa lanciata da Renzi: un miliardo per 21 mila scuole. Tre i capitoli: #scuolenuove (rifacimento o costruzione di nuovi plessi), #scuolebelle (piccola manutenzione) e #scuolesicure (messa a norma e in sicurezza). Il più critico, al momento, è anche quello più importante: ovvero la sicurezza. A dicembre 500 sindaci hanno marciato su Roma perché, pur avendo già effettuato i lavori, non erano ancora riusciti a riscuotere i fondi della prima tranche. Il governo conta di far partire entro la fine di quest’anno 1.600 cantieri di #scuolesicure ed altrettanti di #scuolenuove ed altri 15.000 per #scuolebelle entro primavera 2016. I conti, li faremo alla fine.


  • Per l’approvazione delle riforma la tabella di marcia è pronta. Prima si cercherà di ottenere il consenso, attraverso una manifestazione nazionale organizzata nell’ultima decade di febbraio dal Partito Democratico. Subito dopo le nuove norme arriveranno in Consiglio dei Ministri.

La Tecnica della Scuola.it, del 07-01-2015. Di Alessandro Giuliani

Per l’approvazione delle riforma la tabella di marcia è pronta. Prima si cercherà di ottenere il consenso, attraverso una manifestazione nazionale organizzata nell’ultima decade di febbraio da Partito Democratico. Subito dopo le nuove norme arriveranno in Consiglio dei Ministri.
Le indicazioni temporali sono arrivate dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi, attraverso una delle sue enews. "E' arrivato il momento di passare dalle parole ai fatti. Il 22 febbraio - primo compleanno del Governo - il Pd organizzerà una manifestazione nazionale sul tema della scuola. E nella settimana successiva – si legge ancora nel messaggio del premier - porteremo in cdm gli atti normativi su insegnanti, abolizione del precariato e supplenze, formazione tecnica e professionale, alternanza scuola lavoro, su educazione motoria, arte, educazione civica, inglese, valutazione degli insegnanti e scuole, sul merito come motore della scuola italiana".
L’elenco di temi prospettato da Renzi non sembra contenere sorprese: si tratta di punti già ampiamente annunciati da diverse settimane. L’unico dubbio, semmai, riguarda quello sul merito degli insegnanti: dopo aver archiviato la formula del 66% di prof promossi e del 34% bocciati in ogni istituto, ancora non si hanno indicazioni certe sulla strada presa dal Governo.
Da indiscrezioni sembrerebbe che si procede verso un sistema “misto”, con il mantenimento degli scatti di anzianità (ma aumenti periodici ridotti rispetto ad oggi) ma anche con l’introduzione di premi da assegnare a chi è impegnato attivamente in funzioni centrali per le scuole. Nei prossimi giorni ne sapremo di più.


  • Renzi fissa una nuova data: 28 febbraio

Dovrebbero essere la data entro la quale il Governo presenterà i testi di decreto legge e disegno di legge per l'attuazione del progetto Buona Scuola

La Tecnica della Scuola.it, del 07-01-2015, di Reginaldo Palermo

Continuano annunci e dichiarazioni di Giannini  e Renzi a proposito della riforma della scuola prossima ventura. Ma - almeno per noi - lo scenario non è ancora del tutto chiaro. Anzi, paradossalmente, annunci e dichiarazioni stanno creando qualche ulteriore confusione.
Dunque: poche settimane fa Giannini aveva giurato che a gennaio la riforma sarebbe stata presentata (peraltro senza spiegare bene a parte del progetto intendeva riferirsi: piano di assunzioni? stato giuridico del personale? carriera dei docenti, o che altro?
Pochi giorni fa Renzi ha detto: "Il 22 febbraio (segnatevi questa data) presenteremo il progetto", ammettendo implicitamente che si sta già slittando di qualche settimana.
Molti osservatori hanno interpretato la data come il termine entro il quale il Governo presenterà una proposta di legge o qualcosa del genere. Ma nessuno ha detto che il 22 febbraio è una domenica e questo potrebbe voler dire che in realtà Renzi sta pensando ad un "evento" pubblico (un convegno o qualcosa del genere) a carattere informale.
Poche ore fa è arrivato il video-messaggio con cui si aggiunge qualche tassello e si parla del 28 febbraio come data in cui dovrebbero essere resi noti decreti legge e disegno di legge sulla scuola.
A voler essere logici il decreto legge dovrebbe riguardare certamente le assunzioni; ma quante? 150mila?  Difficile crederlo perché per quanto se ne sa al Ministero non hanno ancora dato avvio al previsto monitoraggio delle graduatorie ad esaurimento.
C'è anche un problema di tempi: il decreto, dopo essere stato firmato dal Consiglio dei Ministri, dovrà essere pubblicato nella Gazzetta Ufficiale per poter entrare in vigore (si possono calcolare altri 10-15 giorni). 
Sempre entro la fine di febbraio (parola di Renzi e Giannini) dovrebbe arrivare un disegno di legge per la riforma ordinamentale (nuove discipline di insegnamento, per esempio).
Non si capisce ancora bene se la carriera dei docenti starà nel decreto o nella legge, vediamo se nei prossimi giorni se ne potrà sapere qualcosa di più.
La sensazione è che il Governo sia in forte difficoltà sul tema della scuola: se così non fosse, non ci sarebbe nessun bisogno di fare annunci a giorni alterni; basterebbe dire: all'ordine del giorno del prossimo consiglio dei Ministri ci sarà l'esame del decreto per l'assunzione di 150mila precari, punto.
Per il momento l'unica cosa certa sono i tagli previsti dalla legge di stabilità che equivalgono, milione più milione meno, a quanto necessario per effettuare le prime 50-60mila assunzioni di cui si parla nel documento sulla "Buona Scuola".


  • La Buona Scuola: arriva la ‘fase 2′. Che succederà dopo il flop della ‘fase 1’?

Il Fatto Quotidiano.it, del 06-01-2015, di Marina Boscaino

“Da qui alla fine di febbraio sarà entusiasmante confrontarsi con le decine di migliaia di contributi arrivati in risposta alla nostra richiesta di commentare, integrare, contestare le proposte della riforma della “Buona scuola“. Abbiamo bisogno di almeno mille persone in Italia innamorate della scuola per portare in fondo la riforma”. Così Matteo Renzi il 13 dicembre, dopo l’evento (sic!) del Nazareno, per anticipare i dati dell’”ascolto” sul documento extraparlamentare (ma citato persino nella Legge di Stabilità!): la Buona scuola.

Da allora è trascorso quasi un mese. Avevamo sperato che un minimo di saggezza guidasse dichiarazioni e azioni del premier. Il risultato risibile del sondaggio, il pronunciamento contrario di tanti collegi dei docenti, ci avevano fatto immaginare una maggiore cautela e – illusi – una tensione democratica che evidentemente non è proprio nelle corde del premier. Invece eccolo: “Da qui al 28 febbraio scriveremo i testi: il decreto e il disegno di legge”. “Se riparte la scuola, riparte l’Italia. Ci stiamo credendo e investendo”; “Sarà entusiasmante che diventi la più grande riforma dal basso mai fatta in un Paese europeo”. Nonostante, cioè, il no o l’indifferenza che le componenti della scuola – docenti, studenti, personale Ata, genitori, persino i proverbiali e immancabili nonni- hanno tributato alla proposta del Governo, lui va avanti, fidente nel fatto che il tempo è galantuomo; e che forse quegli smemorati degli italiani abbiano dimenticato il flop di un documento scritto in un mese, infarcito di strafalcioni, di ammiccamenti non velati al mondo imprenditoriale, di anglicismi di matrice bancaria; nonostante l’occupazione di ogni spazio istituzionale e persino delle istituzioni scolastiche (in cui si sono tenuti sedicenti dibattiti senza contraddittorio), nonostante il dispendio di fondi pubblici per spot, ricchi premi e cotillon, i numeri dell’ “ascolto” sono stati miseri e le evidenze non entusiasmanti come il giovane rampante di fiorentino avrebbe auspicato. Va avanti alla sua maniera: subissando gli italiani di chiacchiere inconsistenti. In cui trovano spazio le gamme più variegate della sua trita retorica; parole in libertà, senza alcuna prova concreta, per annunciare la “Fase 2”: la campagna di ascolto valutata “dalle istituzioni europee come la più grande mai fatta a livello continentale” (Chi? Quando? In quale contesto?). Poi aggiunge: “Centinaia di migliaia di persone ci hanno detto la loro, ci hanno anche insultato, ci hanno dato suggerimenti, criticato, fatto proposte alternative. Non c’è dubbio che per la prima volta la riforma della scuola anziché farsela in un ufficio con i tecnici del ministero e di Palazzo Chigi, la stanno facendo gli italiani e le italiane”. Centinaia di migliaia di persone: mancano dati concreti di come si siano pronunciati i 207mila (rispetto ad un pubblico potenziale di circa 10 milioni di persone, considerando solo docenti, studenti delle superiori, genitori; 207mila diventati magicamente tali in 2 giorni, dal momento che a due giorni dalla chiusura del sondaggio le risposte erano 65mila) che hanno compilato il questionario sulla Buona Scuola. E poi, se sono arrivati critiche, insulti, suggerimenti, proposte alternative, come farà in un mese e mezzo il Governo a recepire tutta questa messe di informazioni e canalizzarla in dispositivi di legge? Non è malizia pensare che ora più che mai saranno proprio dei tecnici chiusi in uno studio a preparare la riforma.

Dapprima un decreto d’urgenza, l’unico strumento giuridico che consente di attuare la riforma in tempo utile per il prossimo anno scolastico. Il ddl successivo potrebbe servire invece a predisporre un nuovo Testo unico della Scuola(l’ultimo è del 1994). Infine la chiusa visionaria: “Se riparte la scuola, riparte l’Italia. Noi ci stiamo credendo, ci stiamo lavorando e investendo, mettendoci tanti soldi, che sono i soldi degli italiani”. Un’iniezione di fiducia, di dinamismo efficentista, di entusiasmo giovanilista mentre – nel silenzio generale – solo Il Fatto Quotidiano rivelava che proprio alla sua spregiudicata volontà di mantenere il potere ad ogni costo dobbiamo la cancellazione della condanna di Berlusconi per frode fiscale.

Quando questo Paese si sveglierà dallo stato di sconvolgente torpore in cui agonizza da ormai 20 anni sarà davvero troppo tardi. La scuola della Costituzione potrebbe essere cancellata da un fiume di parole e da un colpo di mano autoritario che, mentre dice “ascolto”, concretizza (in un tempo record di un mese e mezzo, indicativo ancora una volta della cura che il Governo riserva a questa istituzione della Repubblica) i diktat di poteri forti,lobby economiche e le più viete espressioni del neoliberismo imperante: diritti diversi, a seconda della nascita; scuole di serie A, B, … Z, a seconda del potere economico e culturale delle utenze; invalsizzazione degli apprendimenti degli studenti; dirigenti decisori unici di carriere e destini professionali dei docenti; scuole azienda, per formare lavoratori efficienti, asserviti allo sponsor esterno, e non menti critiche; scuola pubblica che si compone e pone sullo stesso piano scuola statale e scuola paritaria; e molto altro ancora.

Il messaggio per la riapertura delle scuole dopo la pausa natalizia ripiomba il mondo dell’istruzione in un incubo addirittura peggiore di quello che si poteva immaginare. La corsa del delfino di Berlusconi, però, dovrà comunque fare i conti con quella parte del mondo della scuola e della società civile non anestetizzata dall’oppio della velocità, dal fascino del giovane condottiero, dalla prorompente ed esuberante arroganza guascona dello sdoganatore del papi di Arcore.

Proviamo a svegliarci dalla seduzione della velocità. Dal primo manifesto del Futurismo è passato molto più di un secolo; e Marinetti prometteva retoricamente di “distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie”; Renzi minaccia concretamente di distruggere la scuola statale e quel poco di democrazia rimasta in questo Paese.


  • Spariti gli scatti di merito per gli insegnanti. Pesa ancora l’anzianità

Dietrofront del Pd sulla riforma della «Buona Scuola»

Corriere della sera.it, del 17-12-2014, di Claudia Voltattorni

ROMA Scatti di merito, addio. Promessi a settembre, contestati con tanto di raccolta firme dai sindacati, bocciati sabato scorso dal Pd. Che fa retromarcia sulla Buona Scuola, prima ancora che diventi un testo di legge da discutere in Parlamento. Quello che è (o era) uno dei cardini della bozza di riforma del sistema educativo firmata Renzi-Giannini è stato giudicato inadeguato dal Partito democratico e dunque molto difficilmente potrà restare nel progetto del governo.
Nella giornata dedicata alla discussione sulla Buona Scuola, il partito del premier ha proposto un modello alternativo di carriera per gli insegnanti. Nella nuova bozza, che dovrà passare al vaglio di ministero e maggioranza, non ci sono più gli scatti per due terzi del corpo docente, decisi dal preside di ogni scuola sulla base dell’impegno e della bravura dell’ insegnante, al posto degli scatti di anzianità. C’è invece un sistema misto: resta l’anzianità (non è specificato con che cadenza) e compare una nuova figura professionale, a metà tra l’insegnante e il dirigente: è il «docente esperto», un livello superiore rispetto a quello di ingresso nella scuola al quale si accede con una specie di formazione permanente, che nelle intenzioni del documento Pd dovrà essere obbligatoria, e una sorta di concorso: non più i presidi ma commissioni provinciali esamineranno i titoli dei docenti sulla base anche di un esame o di un colloquio.
«Il meccanismo del 66% — spiega Maria Grazia Rocchi del Pd — è stato quello più contestato dai docenti nella consultazione della Buona Scuola: la nostra ipotesi è quella di non escludere una retribuzione basata sull’anzianità perché un insegnante diventa un buon insegnante anche grazie alla pratica». A regime, secondo il piano Pd, dovranno essere tra il 15 e il 25% gli insegnanti che possono accedere al livello di «docente esperto».
Nel documento del Pd è molto duro il giudizio sul sistema invece proposto a settembre dalla Buona Scuola: il punto di partenza, si legge, è che «nessuno (nel testo scritto tutto maiuscolo per far capire che è proprio un no) condivide il principio enunciato dalla Buona Scuola secondo cui un insegnante mediamente bravo per ricevere lo scatto di competenza dovrebbe cercarsi la scuola dove vi sono insegnanti scarsi per poter emergere visto che lo scatto di competenza sarà assegnato solo al 66% del corpo docente. Lo scatto così sarebbe semplicemente un diverso sistema di fasce stipendiali non una differenziazione delle carriere all’interno delle scuole autonome». E ancora: va bene valutare le competenze didattico-disciplinari, cioè la bravura di un insegnante ma questa «anche se posseduta al sommo grado non potrà automaticamente tradursi in un passaporto per il livello superiore».
La questione dello stipendio è centrale, perché il docente esperto dovrà avere un «aumento retributivo non simbolico e permanente anche in caso di successivo trasferimento». Che cosa farà il docente esperto? Può aspirare alla carriera di dirigente ma dovrà «assumere incarichi e responsabilità organizzative dentro la propria scuola».
La proposta del Pd non è del tutto nuova. Ricorda in parte l’idea proposta negli anni scorsi da Forza Italia con Valentina Aprea e durante l’estate l’opzione era circolata come opzione alternativa agli scatti di merito ma alla fine non era stata presa in considerazione dal governo. «È una svolta positiva — spiega Massimo Di Menna, leader della Uil scuola —. L’idea degli scatti di merito a due insegnanti su tre in ogni scuola era offensiva, siamo soddisfatti di essere stati ascoltati».


  • Proteste fuori al Miur: ecco i buchi neri della “Buona Scuola”

Mentre il ministro Giannini presentava i risultati sulla consultazione, il Coordinamento delle scuole di Roma-lavoratori autoconvocati si è presentato sulla scalinata del dicastero di viale Trastevere con 200 mozioni, deliberate dai collegi docenti, tutte critiche nei confronti del documento. Poco distante manifestavano i precari dell’Invalsi: questo progetto è privo delle risorse economiche necessarie, i 60 dipendenti precari presto licenziati.

La Tecnica della Scuola.it, del 16-12-2014

Mentre il ministro Giannini anticipava i primi risultati della consultazione sulla “Buona Scuola”, esaltando la linea innovatrice voluta dal Governo, davanti all'ingresso del ministero dell'Istruzione scattava una doppia protesta.
Una delegazione del Coordinamento delle scuole di Roma-lavoratori autoconvocati si è presentato davanti al dicastero dell’Istruzione con un pacco di mozioni, deliberate dai collegi docenti, tutte critiche nei confronti del documento del Governo. "Ne abbiamo raccolte oltre 200. Sostanzialmente bocciano il piano del Governo e avanzano proposte concrete, ma non ce le fanno consegnare", hanno detto i manifestanti ai giornalisti.
Non troppo distante da loro manifestava un altro gruppo di lavoratori: quelli dell'Invalsi. "Nella Buona scuola un punto centrale riguarda la valutazione. E il nostro Istituto che dovrebbe coordinare il Sistema nazionale di valutazione si trova oggi, 15 dicembre – riporta l’Ansa - totalmente privo delle risorse economiche necessarie per svolgere questo importante compito. I 60 dipendenti a tempo determinato termineranno il loro contratto di lavoro il 31 dicembre e non ci sono soldi per rinnovare i contratti. I 30 dipendenti a tempo indeterminato non potranno in alcun modo ottemperare ai compiti previsti, compresa la prova Invalsi all'esame di Stato".


  • Scuola, Cgil: “Stato non paga supplenze: docenti mandino le bollette a Renzi”

Una vera e propria campagna, quella lanciata dalla Cgil emiliano romagnola, che arriva dopo anni di denunce, appelli pubblici, scioperi e manifestazioni, tutti inascoltati

Il Fatto Quotidiano, del 07-11-2014

Sono dipendenti dello Stato, eppure lo Stato versa loro lo stipendio con mesi di ritardo, costringendoli a rimandare il pagamento dell’affitto, delle bollette, a chiedere aiuto alle famiglie. Così, per centinaia di ‘supplenti brevi’ in Italia lavorare è quasi un incubo. “Non si può più andare avanti in questo modo – attacca Raffaella Morsia, segretario generale della Flc Cgil Emilia Romagna – invito i supplenti a inviare le bollette da pagare direttamente al premier Matteo Renzi e al ministro Stefania Giannini, perché o si protesta, o la situazione non cambierà mai”.
Una vera e propria campagna, quella lanciata dalla Cgil emiliano romagnola, che arriva dopo anni di denunce, appelli pubblici, scioperi e manifestazioni, tutti inascoltati, volti a chiedere provvedimenti utili a snellire il procedimento burocratico che determina il ritardo nel pagamento degli stipendi dei supplenti brevi. Quei lavoratori, cioè, chiamati dalle scuole a sostituire gli insegnanti assenti per periodi di tempo limitati: giorni, settimane o, a volte, qualche mese. Tanto che ogni anno sono centinaia i supplenti delle scuole elementari, medie o superiori che si trovano a dover fare i conti con una busta paga che non arriva, e spese su spese da pagare: il denaro per spostarsi nella città dove si trova la scuola che li ha chiamati, il vitto, l’alloggio.
“Qui in Emilia, ad esempio, è capitato più volte che il proprietario di un’abitazione affittata da un supplente chiamasse la scuola presso cui era impiegato per chiedere una garanzia sull’affitto non pagato, così da non buttarlo fuori di casa – racconta Morsia – o ancora, che un preside prestasse di tasca propria qualche euro a un supplente che non aveva il denaro necessario a pagarsi il vitto”. Ad oggi, spiega la Cgil, nessuno dei supplenti entrati in servizio a settembre ha ancora visto un euro di stipendio. “Non sappiamo quantificare di preciso quanti siano i lavoratori in questa situazione in Italia – continua il segretario della Flc Emilia Romagna – anche perché molti supplenti brevi, che in pratica sono l’ultimo anello della catena alimentare della scuola, i più precari tra i precari, spesso hanno paura a denunciare queste difficoltà. Ma non credo di sbagliare se dico che sono centinaia”.
Il problema, ancora una volta, è la burocrazia. Le scuole, infatti, comunicano le supplenze fatte dai docenti al ministero dell’Economia, ma i fondi per le retribuzioni arrivano dal bilancio del ministero dell’Istruzione. E siccome la procedura spesso si inceppa, scattano i ritardi. “Noi abbiamo provato a più riprese a chiedere al Tesoro di risolvere la situazione – sottolinea Morsia – ma il Miur dice che è colpa del Mef, e il Mef che è responsabilità del Miur. E chi ne fa le spese? Ovviamente il lavoratore, già costretto a pagare di tasca propria trasferte e pernottamenti”.
Così c’è chi è costretto a rinunciare a una supplenza perché non ha il denaro per mantenersi in attesa che lo Stato lo retribuisca. O chi, ancora, a metà incarico si licenzia. E poi ci sono le scuole, che puntualmente comunicano al ministero il fabbisogno finanziario necessario a pagare i docenti temporanei senza ricevere risposta. “Siamo a novembre – racconta Fernando Tribi, direttore amministrativo delle scuole superiori Mattei di Fiorenzuola D’Arda, in provincia di Piacenza – e non abbiamo ancora ricevuto un euro dal ministero, quindi non siamo in grado di pagare i colleghi che dall’inizio dell’anno stanno sostituendo chi è assente consentendo così il regolare funzionamento delle attività didattiche. Tra l’altro molti di questi supplenti sono fuorisede e vivono enormi difficoltà nel saldare i debiti contratti, ad esempio, per affittare una casa o una stanza. La situazione è drammatica e vergognosa. Quando il governo Renzi aveva detto che stava studiando un provvedimento per eliminare le supplenze non credevo intendesse eliminare prima i supplenti”.
In più, le scuole non hanno ancora ricevuto dallo Stato i fondi necessari a finanziare l’attività didattica, ad esempio per pagare le bollette o comprare nuovo materiale. Solitamente tali risorse vengono erogate in due tranche, una relativa ai primi 8 mesi dell’anno scolastico, e una per gli ultimi 4. “Ma non sono arrivati nemmeno quelli – conferma Tribi – quindi la situazione è gravissima per tutti. Altro che ‘buona scuola’, per ora abbiamo una scuola assolutamente stracciona, che peraltro espone i propri lavoratori a situazioni incresciose nello stesso luogo dove dovremmo insegnare ai ragazzi il rispetto per il prossimo”.


  • Israel sulla maturità: sfatare il mito dell’oggettività

Si aspira a un esame il cui esito sia il più omogeneo possibile, dalle Alpi al Lilibeo, improntato agli stessi criteri. Ma cosa vuol dire questo e come può essere realizzato?

Tuttoscuola.it, del 07-11-2014

Nel dibattito sull’esame di Stato conclusivo degli studi secondari stimolato da Tuttoscuola, che ha già registrato nei giorni scorsi l’intervento di Giorgio Allulli, pubblichiamo un contributo di Giorgio Israel, docente di storia della matematica alla Sapienza di Roma.
Rallegriamoci che il governo abbia desistito (speriamo definitivamente…) dall’intenzione di ridurre le commissioni dell’esame di maturità a soli membri interni. La motivazione della protesta – giova ricordarlo – era che in tal modo si rendeva tale esame un’inutile pantomima – tanto valeva attenersi all’esito dello scrutinio finale – e si disattendeva l’esigenza di rigore, di un giudizio esterno che desse maggiore “oggettività” al giudizio finale. Ora, nella discussione su come riformare l’esame di maturità dobbiamo ripartire proprio dall’unico senso ragionevole che può darsi a queste parole: rigore e oggettività. Si aspira a un esame il cui esito sia il più omogeneo possibile, dalle Alpi al Lilibeo, improntato agli stessi criteri. Ma cosa vuol dire questo e come può essere realizzato? Qui abbiamo sentito parlare di “standardizzazione”, di correzione automatica alla maniera dei test Invalsi, che si auspica siano introdotti anche all’esame di maturità, persino di correzione automatica mediante i calcolatori e software avveniristici: il tutto per escludere l’arbitrarietà della soggettività umana, le idiosincrasie dei commissari. In tal modo, non si vede che, richiedendo a gran voce la persistenza di commissioni a composizione mista si è richiesta la presenza di altre soggettività oltre a quelle degli insegnanti interni. Ma se l’unico obbiettivo sensato è il raggiungimento dell’oggettività assoluta nel giudizio, totalmente indipendente dalla soggettività dei singoli, la soppressione pura e semplice delle commissioni e la loro sostituzione con delle tecniche di giudizio standardizzate addirittura per via informatica era perfettamente ragionevole e la battaglia è stata contraddittoria. Perché mai affannarsi a trasportare da una parte all’altra del paese delle “soggettività” se non è questo il modo di garantire l’oggettività e il rigore?
Qui, piaccia o no, si tocca una questione epistemologica e cioè in che senso si possa intendere l’oggettività in un ambito che non è quello delle scienze fisiche o del mondo inanimato, ma è contrassegnato dalla presenza attiva di soggetti autonomi, nella fattispecie insegnanti e studenti. Qui ci si divide tra chi – non soltanto di area umanistica, ma anche e talora soprattutto di area scientifica – ha ben chiari i limiti del trasporto meccanico in quell’ambito dell’idea di oggettività tipica delle scienze fisico-matematiche, e di chi ha scarsa attenzione per il contesto disciplinare e per le modalità del processo di insegnamento e apprendimento e si nutre esclusivamente di pane e statistica. E qui non vale dire «in America si fa così». Certo, come ha scritto lo storico della scienza statunitense Theodore Porter nel suo Trust in Numbers, la tradizione dell’uso del calcolo nel management è nata in Europa, in particolare in Francia, ma «l’uso sistematico dei test QI per classificare gli studenti, i sondaggi di opinione per quantificare gli umori del pubblico, metodologie statistiche sofisticare per valutare il rapporto costo-benefici e le analisi di rischio nelle opere pubbliche – tutto in nome di una oggettività impersonale – sono prodotti distintivi della scienza Americana e della cultura Americana». Tuttavia, due osservazioni vanno fatte: a) non siamo in colonia e non tutto quello che si pensa e si dice negli USA va preso come verità rivelata (strano modo di essere oggettivi); b) se c’è chi negli USA continua imperterrito in quell’andazzo, proprio là sta montando una reazione vivacissima, preoccupata dai disastri che ha prodotto in numerosi campi la mitologia dell’oggettività impersonale, mentre da noi sembra imporsi il più piatto conformismo.
Proviamo allora a mettere alcuni punti fermi.
È indiscutibile che l’attribuzione di un peso non esclusivo ma molto rilevante alle prove scritte sia un modo per affermare l’imparzialità del giudizio; quantomeno secondo il vecchio detto «carta canta e villan dorme»: quel che è stato scritto non si presta a contestazioni e a interpretazioni discutibili da entrambe le parti.
Ciò posto, la valutazione di quanto è stato scritto non è assolutamente riducibile a un giudizio standardizzato impersonale. Se un tema riguarda l’opera di Leopardi, è ridicolo pensare che si possa definire un giudizio standardizzato di tale opera che costituisca un crivello cui deve ciecamente attenersi chi giudica e chi scrive il compito. Il commissario ha inevitabilmente delle idee personali al riguardo, e così lo studente, cui dobbiamo lasciare la facoltà di esporre liberamente quanto ha “maturato” e che può risultare originale e interessante di per sé e anche per la commissione. Altrimenti, con che coraggio deprecare la scuola nozionistica? Il discorso vale per tutte le materie. Vale per una traduzione dal greco o dal (al) latino: non esiste la traduzione standardizzata ottimale e lo studente può esibire capacità differenziate e anche imprevedibili al riguardo. Sono queste le capacità da valutare (a meno che non si chiuda un occhio sulla prassi di scaricare le traduzioni via cellulare dalla rete…) e cui non può rispondere un correttore automatico. E – si badi bene – questo vale anche per un problema di matematica, in cui la determinazione della soluzione esatta – un numero, un’espressione finale – è , in fin dei conti, l’aspetto meno importante del compito: gli aspetti più rilevanti sono come si è giunti alla soluzione (talora la fantasia nel trovare una via originale), il modo con cui si sono descritti i vari passaggi, il rigore e la precisione esplicativa. Tutto questo non può darlo alcuna correzione standardizzata, a meno di non decidere di sottoporre lo studente a prove standardizzate di modesto livello culturale, che non consentono altro che una risposta univoca: questionari, quiz, e analoghi. A tale degrado dovremmo arrivare in nome di una mitologia dell’oggettività impersonale estranea alla sfera dell’umanità?
Proviamo a rovesciare il discorso e a considerare l’esame di maturità – senza prove Invalsi, questionari, quiz e altre miserie – come uno strumento di valutazione del sistema dell’istruzione. In diverse università straniere si procede alla valutazione al seguente modo: l’intero dossier dell’esito di un esame (scritto) viene inviato ad altri docenti di un’altra università, i quali lo esaminano e inviano il loro giudizio che diventa materia di un confronto e di valutazione dell’operato dell’università (e della commissione o del docente) di partenza. Perché non fare qui la stessa cosa? Sottoporre il dossier dei giudizi di una commissione di maturità a un’altra commissione o a commissioni costituite allo scopo? Si aprirà così un processo di confronto che avrà come esitotrasparenzaemiglioramento della qualità del sistema. La valutazione non può essere altro che intesa come un processo di crescita culturale che mira a far sì che le attività di attività di giudizio – emesse da soggetti, e inevitabilmente soggettive – siano quanto più possibileimparzialiedequanimi: questi sono gli aggettivi da usare al posto di una “oggettività” mutuata in modo meccanico dalla prassi delle scienze fisico-matematiche. È un processo lungo e complesso, ma è l’unico che non svilisce la ricchezza intellettuale – diciamo pure la ricchezza delle conoscenze e delle competenze – del professore e dell’allievo, riducendoli a macchine per somministrare test di verifica e a macchine per ingurgitare nozioni atte a superarli.
Quindi: commissioni miste, compiti scritti quanto più sia possibile (senza per questo escludere una fase di colloquio verbale), valutazione incrociata (di tipo ispettivo) dei giudizi emessi, quantomeno per una quota percentuale significativa delle prove di esame.


  • Il caso dei supplenti senza stipendio dal 19 settembre “Un’umiliazione”

La Cgil e i docenti pagati con mesi di ritardo “Invieremo le bollette a premier e ministro”

la Repubblica.it, del 06-11-2014

SARA ha cominciato a lavorare il 19 settembre in una scuola elementare a Sant’Agata bolognese. Una sostituzione sino ai primi di novembre. Terminata. Ma non ancora pagata. Lo stipendio per i supplenti non arriva. «Già il viaggio, trenta chilometri al giorno, e i pasti erano a mio carico, ma pur di lavorare accetti tutto. Però insegnare senza essere pagati, se non dopo mesi, è assurdo. Ho fatto anche una sostituzione di una settimana a Castenaso, ma la scuola mi ha già detto che non ha i soldi. Non si può continuare così, io ho 35 anni e sono costretta a vivere ancora con i miei genitori, un’umiliazione». Nella situazione di Sara ci sono decine di insegnanti in provincia di Bologna chiamati per supplenze brevi dagli istituti, dalla primaria alle superiori. Le scuole comunicano al ministero dell’Economia le supplenze fatte dai docenti. I ritardi sono nell’accreditamento dei soldi, che arrivano dal bilancio del dicastero all’Istruzione. Non c’è coordinamento, il sistema si inceppa continuamente. Anche prima dell’estate: chi aveva lavorato a maggio è stato pagato a fine settembre. La Cgil protesta: «Il Tesoro deve pagare, senza più fumosi passaggi. È inaccettabile che si ignori il diritto di chi lavora e ha più bisogno». Bussano i supplenti, ma anche i loro padroni di casa. «In qualche caso chiamano le scuole chiedendo la garanzia per l’affitto», racconta Raffaella Morsia. «Così non si può andare avanti», aggiunge Francesca Ruocco. «Diremo ai supplenti di inviare le bollette da pagare a Renzi e al ministro Giannini».


  • Manifestazione 8 novembre: in piazza i sindacati della scuola. Banco di prova per le elezioni Rsu

una manifestazione che per la prima volta vedrà uniti tutti i sindacati dei servizi pubblici

OrizzonteScuola.it, dello 06-11-2014, di Patrizia Del Pidio

L’8 novembre si terrà a Roma ; per i sindacati della scuola, potrebbe essere un’importante banco di prova prima delle elezioni Rsu.
La manifestazione, che partirà da Piazza della Repubblica a Roma alle 13,30, sfilerà in corteo per le strade della capitale per giungere verso le ore 17,00 a Piazza del Popolo, dove si terrà il comizio conclusivo cui interverranno i segretari generali Cgil, Susanna Camusso, Cisl, Annamaria Furlan, e il segretario aggiunto della Uil Carmelo Barbagallo. Successivi dettagli saranno resi noti durante la conferenza stampa che sarà tenuta per presentare l’iniziativa il 7 novembre.
La manifestazione di protesta coinvolgerà una platea di 4 milioni di persone essendo rivolta ai lavoratori di tutti i settori del pubblico impiego, dalla scuola alla sanità, dalla Pa centrale ai servizi locali.
Una manifestazione unica in difesa di servizi pubblici e dei settori della conoscenza, della sicurezza e del soccorso per “sfidare il Governo degli illusionismi e delle divisioni; per chiedere una vera riforma delle Pa, dei comparti della conoscenza, dei servizi pubblici. E per rivendicare il diritto al contratto nazionale di lavoro tanto per i lavoratori pubblici quanto per quelli privati”.
“Cinque anni di tagli lineari forsennati, di blocco delle retribuzioni, oltre dieci di blocco del turn-over, un esercito di precari senza certezze e tutele, riforme fatte in fretta e male: il sistema è al collasso, mentre la spesa continua a crescere nonostante i tagli al welfare e il caro prezzo pagato dai dipendenti pubblici, oltre 8 miliardi di euro in 5 anni. Qui non è in gioco solo il futuro delle lavoratrici e dei lavoratori, ma quello dell’intero Paese. Come pensa il Governo Renzi di garantire salute, sicurezza e soccorso, istruzione, prevenzione, assistenza, previdenza, ricerca e sviluppo senza fare innovazione, senza investire nelle competenze, nella formazione, nel lavoro di qualità, senza aver messo in campo un progetto?” rilevano i sindacati concludendo che saranno in piazza l’8 novembre ma saranno presenti anche in tutti i posti di lavoro per spiegare ai lavoratori “una per una le bugie del Governo. “.


  • Manifestazione in piazza: tutti i sindacati della scuola

Hanno aderito alla manifestazione Fp-Cgil, Fp-Cgil Medici, FLC CGIL, Cisl-Fp, Cisl-Scuola, Cisl-Medici, Fns-Cisl, Fir-Cisl, Cisl-Università-Afam, Uil-Fpl, Uil-Fpl Medici, Uil-Pa, Uil-Scuola, Uil-Rua.

La manifestazione punta a chiedere un miglioramento della qualità del sistema dell’istruzione e della ricerca. I settori della conoscenza per migliorare hanno bisogno innanzitutto di adeguati finanziamenti ma anche di una adeguata formazione del personale sostenuta anche da un salario adeguato per i lavoratori che offrono tale servizio.
I sindacati con questa grande manifestazione chiedono una riapertura della contrattazione oltre ad una stabilità e certezza per il lavoro del personale precario. Inoltre, a tutela dell’Università, costi e servizi standard. Come leva di crescita, si chiede ancora, una valorizzazione dell’istruzione e della formazione.
I sindacati della scuola sono sul piede di guerra per quel che riguarda non solo il rinnovo del contratto di lavoro, ma il contenuto del documento governativo “La Buona Scuola”, argomento che sarà trattato largamente nell’incontro nel quale sono stati convocati per il12 novembre.
La parte che riguarda le assunzioni non può che piacere ai sindacati anche se nel documento molti sono i punti che non soddisfano i rappresentanti dei lavoratori.
Uno dei punti che meno piace è quello che riguarda il sistema meritocratico che andrebbe a penalizzare i neoassunti portando, di fatto ad un taglio degli stipendi, che premierebbe solo il 66% dei docenti penalizzando il restante 34%.
C’è molto da discutere anche su quello che riguarda il nuovo sistema per le supplenze che dovrebbe sostituire le graduatorie di istituto, attualmente in fermento.
Ma ciò che maggiormente pesa ai sindacati è l’istituzione dello scardinamento degli scatti stipendiali per anzianità degli insegnanti. La parte della riforma legata agli stipendi è, quindi, pesantemente bocciata dai sindacati.


  • Manifestazione: banco di prova Rsu

La manifestazione dell’8 novembre potrebbe essere un banco di prova per le  prossime elezioni sindacali per la rappresentatività delle sigle.

Le elezioni per il rinnovo delle Rsu sono dal 3 al 5 marzo 2015 e sono chiamate al voto 3.343.999 persone di cui 1.005.840 che lavorano nella scuola.
La legge 165/2001 prevede che per ottenere rappresentatività sindacale i sindacati devono raggiungere la soglia del 5% calcolando la media tra iscritti e voti riportati alle elezioni delle Rsu. Il mancato raggiungimento di tale soglia comporterà l’esclusione dai tavoli di negoziazione sindacale. Lo scorso anno ha partecipato alle elezioni l’80% del personale del pubblico impiego. Questa manifestazione potrebbe rappresentare, quindi, un importante banco di prova prima delle elezioni per il rinnovo delle Rsu.


  • Insegnanti reclutati dalla rete

La ricetta degli industriali in 100 punti. Alternanza scuola-lavoro nell'ultimo triennio

ItaliaOggi, del 14-10-2014, di Giovanni Scancarello

 Intramoenia per i docenti, sistema duale estivo e its consortili, via gli scatti di anzianità e sì alla chiamata diretta dei prof. Sono alcune delle 100 proposte per la buona scuola di Confindustria. «Serve sostegno soprattutto all'autonomia e all'istruzione tecnica e professionale», dice Ivan Lobello, capo Education di Confindustria, «ma anche orientamento, valutazione e curriculum».
Ecco alcuni punti.
Autonomia. Le scuole possono gestire solo l'1,8% dei costi globali dell'istruzione, dice Confindustria. Non possono scegliere i propri insegnanti e devono rispondere a discipline e orari rigidamente definiti. Il ministero, sostiene Confindustria, deve dimagrire e occuparsi della determinazione delle risorse finanziarie, delle norme generali e dei livelli essenziali di prestazione, dello stato giuridico dei docenti, delle abilitazioni, della valutazione esterna dell'apprendimento e della valutazione dei presidi. Alle regioni il collegamento con il mercato del lavoro, la programmazione del fabbisogno di insegnanti e della rete scolastica. Alle scuole, o alle reti, anche il reclutamento dei docenti. Tra le proposte, anche quella dell'intramoenia per i docenti, perché tornino a scuola al pomeriggio a tenere lezioni private ai loro studenti.
L'istruzione tecnica e professionale. Viale dell'Astronomia chiede di abolire la denominazione di istituto di istruzione superiore e restituire le tradizionali denominazioni di istituto tecnico e istituto professionale e chiede anche di ripristinare la direzione generale dell'istruzione tecnica al Miur.
Bisogna spingere, fa sapere Confindustria, sulle formule di stage e sperimentazioni estive del sistema duale.
C'è poi da semplificare l'apprendistato, alleggerendo il carico dei costi per le imprese per quello di primo e terzo livello, introdurre l'alternanza negli ultimi tre anni di tutti gli istituti tecnici e ed estenderla di un anno ai professionali, aumentando i tempi di alternanza rispetto alle 600 ore della terza area nel triennio. Semplificare infine la creazione degli Its perché possano essere attivati nell'ambito di società consortili e non solo nella forma di fondazioni di partecipazione.
Orientamento. Bisogna fare di più per aumentare l'attrattività dell'istruzione tecnica e professionale. Solo così, dice Confindustria, si potrà contenere il fenomeno della dispersione. Bisognerebbe cominciare a parlare di orientamento fin dalle elementari, come pure orientare gli studenti verso gli Its sin dalla scuola media. C'è bisogno poi di facilitare i passaggi tra licei, istruzione tecnica e IeFP, ma bisogna pensare anche alle quote rosa nell'istruzione tecnica. Ancora troppo poche, infatti, le ragazze ai tecnici.
Valutazione e merito. Per Confindustria va abolito il più possibile il riferimento all'anzianità in carriera. Vanno valutati i presidi e reclutati i docenti attraverso chiamata diretta, valutandone il merito che deve pesare per un terzo dello stipendio. La retribuzione degli insegnanti deve essere articolata in orario di servizio, funzione docente e conseguimento di obiettivi. L'organico funzionale dovrebbe servire anche per consentire ai docenti di fruire di periodi sabbatici e resta poi da ripristinare l'obbligo della formazione.
Curriculum. Prima di tutto va anticipato di un anno l'uscita dalla scuola superiore e abolito il valore legale del titolo di studio. Sul piano dell'innovazione didattica, sostengono gli industriali, c'è da aumentare le ore di laboratorio e diminuire il numero delle discipline del curricolo. Va infine riservato spazio per le lingue e la Clil, favorire tra gli studenti il pensiero computazionale, il coding, le fablab.
 


 

  • Flc-Cgil: Lotta alla dispersione scolastica sia priorità

La FLC CGIL chiede che la lotta alla dispersione sia considerata la prima priorità delle politiche scolastiche 'ordinarie', sia generalizzata la scuola dell'infanzia, siano stanziate risorse finanziarie ed umane

Tuttoscuola.it, del 14-10-2014

"La forte riduzione delle risorse contrattuali per le aree a rischio, l'episodicità degli interventi e delle risorse previsti dal Decreto Carrozza (art. 7 del D.L. 104/13), l'utilizzo preponderante dei Fondi Europei aggiuntivi rispetto alle politiche ordinarie, il tentativo di appaltare una parte cospicua degli interventi sulla dispersione a soggetti esterni alle scuole, sono la testimonianza di una politica scolastica sbagliata, inconcludente e a favore degli interessi dei soliti noti". Lo sostiene Domenico Pantaleo, segretario generale della Federazione Lavoratori della Conoscenza Cgil.
Pantaleo segnala come i dati sulla dispersione scolastica in Italia restino molto gravi: "A fronte della media dell'Unione Europea pari al 12 per cento, in Italia si registra una percentuale di circa il 17 per cento, con punte di oltre il 25% in Sicilia, lontanissima dal target previsto da Europa 2020 di riduzione dell'abbandono al 10%".
E aggiunge: "Persino l'attivazione del Sistema nazionale di valutazione, che doveva avere come primo obiettivo quello di ridurre i tassi di abbandono scolastico, è stata piegata verso una deriva tutta ideologica fatta di classifiche ed esclusioni. La FLC CGIL chiede che la lotta alla dispersione sia considerata la prima priorità delle politiche scolastiche 'ordinarie', sia generalizzata la scuola dell'infanzia, siano stanziate risorse finanziarie ed umane cospicue soprattutto nei territori più in difficoltà, sia affermata la centralità delle istituzioni scolastiche negli interventi di contrasto all'abbandono scolastico, sia ribadita l'aggiuntività delle risorse provenienti dai Fondi Europei. Se anche su questo tema non saranno fornite risposte concrete e attendibili e a fronte  di ulteriori tagli di risorse che il governo intenderebbe effettuare nella legge di stabilità nei settori della conoscenza, continueremo con le iniziative di mobilitazione fino allo sciopero".
 


 

  • Pronti altri 200 mila precari

Intanto il governo taglia 5 mila posti Ata, le segreterie saranno sempre più informatizzate

ItaliaOggi, del 14-10-2014, di Nicola Mondelli e Alessandra Ricciardi

Il governo si appresta a tagliare 5 mila posti dall'organico del personale ausiliario, tecnico e amministrativo. Quelli sui quali sarebbe stato possibile fare assunzioni in pianta stabile, quelle assunzioni a cui la Buona scuola non fa nessun cenno, avendo concentrato il piano da 150 mila stabilizzazioni sui soli docenti.
Per le segreterie scolastiche, invece, la Buona scuola punta alla maggiore informatizzazione che dovrebbe portare a una riduzione del fabbisogno di personale.
Nel frattempo però il Miur riapre, da regolamento, le graduatorie Ata di terza fascia per consentire a chiunque sia interessato di mettersi in lista per essere chiamato dalle scuole per contratti di brevissima durata, per sostituire un segretario, un bidello oppure un assistente momentaneamente assente. Secondo una stima di ItaliaOggi, hanno presentato domanda per il primo ingresso non meno di 200 mila persone. Chance di lavorare? Vicine allo zero. L'organico Ata ammonta complessivamente a circa 205mila unità. I precari che hanno alle spalle, oltre ai titoli di studio necessari, anche un periodo di servizio non inferiore ai 24 mesi dovrebbero essere circa 20 mila.
Terminata l'8 ottobre 2014 la corsa per la presentazione in forma cartacea della domanda di inserimento nella terza fascia nelle graduatorie di circolo e di istituto di terza fascia, valide per il triennio 2014-2017, da parte degli aspiranti alle supplenze di personale Ata, si chiuderà alle ore 14.00 del 5 novembre quella per la scelta delle trenta scuole nelle cui graduatorie si vuole essere presenti. Un scelta che, per espressa disposizione ministeriale, deve essere effettuata esclusivamente con modalità online utilizzando la sezione «Presentazione istanze online – inserimento modello D3» disponibile sull'home page del sito internet del ministero dell'istruzione.
Il Miur non ha reso noti né i numeri delle domande presentate in forma cartacea direttamente dagli interessati nella scuola scelta come capofila né quello delle domande inviate per posta raccomandata.
In base ad alcuni elementi, l'affluenza registrata sia presso gli uffici scolastici territoriali che presso le segreterie delle singole scuole e presso le sedi delle organizzazioni sindacali, oltre a dati a campione raccolti da ItaliaOggi, è possibile però stimare che complessivamente le domande potrebbero essere state non inferiori a duecentomila: il cinquanta per cento in più di quelle presentate per il triennio 2011-2014.
Tenuto conto della attuale drammatica situazione occupazionale, non è l'eccezionale numero delle domande l'elemento che lascia sconcertati gli addetti ai lavori. Quello che stupisce è che in questa tornata le domande di aspiranti a incarichi di supplenze brevi e temporanee, per svolgere mansioni di assistenti amministrativi o tecnici, di addetti alle aziende agrarie, di cuochi, di guardarobieri e di collaboratori scolastici (già bidelli), sono state presentate non solo da coloro che sono in possesso di una qualifica professionale di durata triennale o di un diploma di maturità (titoli espressamente richiesti dalle norme vigenti in materia e in particolare dal decreto ministeriale 717 del 5 settembre 2014), ma anche da coloro che sono in possesso di una laurea triennale o addirittura specialistica.
Così, è stato consentito a migliaia di giovani di entrare nelle graduatorie di terza fascia senza avere fornito loro preventivamente un quadro, per quanto approssimativo, delle reali possibilità di ottenere una supplenza in un settore, quello dei non docenti della scuola statale, da tempo oggetto di tagli negli organici oltre che, in molti casi, di resistenze da parte degli istituti a conferirle dovendole retribuire direttamente con risorse non sempre disponibili.
Per la stragrande maggioranza degli aspiranti inclusi nelle graduatorie le probabilità di ottenere una supplenza sono ridotte al lumicino, se non addirittura inesistenti. Il valore residualità che contraddistingue la natura delle graduatorie di terza fascia comporta infatti che eventuali supplenze potranno essere conferite solo agli aspiranti che occuperanno, potendo fare valere più titoli e periodi di servizio prestato in precedenza, i primi posti nelle prevedibili chilometriche graduatorie. Intanto però crescono le illusioni e le aspettative che la sola iscrizione possa bastare per avere un piccolo contratto e magari vantare in futuro il diritto a una stabilizzazione. In questo modo si replica quel fenomeno diffuso del precariato che ha contraddistinto la categoria dei docenti e per il quale il governo ha annunciato di voler trovare una soluzione definitiva.
 


 

  • Intervista a Francesco Luccisano, tra i redattori della "BuonaScuola"

Abbiamo incontrato Francesco Luccisano, capo della segreteria tecnica del ministro Giannini ed estensore del rapporto sulla Buona Scuola, a Catania durante un incontro organizzato nella mattina del 10 ottobre dai Giovani Imprenditori Confindustria della città etnea.

La Tecnica della Scuola, del 14-10-2014

Francesco Luccisano, 32 anni, ha curato con Alessandro Fusacchia, capo di gabinetto del Ministro (classe 1974) alla stesura delle linee guida del Governo Renzi sulla “Buona Scuola”.
Durante il suo intervento ha esposto a grandi linee il documento, soffermandosi soprattutto sulla necessità di “un’alleanza” con i docenti per far fronte alle nuove sfide di alfabetizzazione, come l’introduzione del digitale e del Clil sin dalla scuola primaria.
A proposito del digitale, ha affermato che l’Italia sarà il primo Paese ad introdurre almeno per una settimana l’anno nella scuola primaria il coding (ovvero la stesura di un programma), anche se le difficoltà da superare non sono poche. Infatti, ad oggi solo il 10% di scuole primarie e il 26% delle scuole medie hanno il wifi.
Infine ha parlato della necessità di aumentare il numero di studenti che attuano l’alternanza scuola-lavoro: ad oggi lo effettua solo il 9% dei giovani delle scuole superiori, ma quel che è peggio è che solo l’0.75% delle aziende si propongono per evitare complicazioni burocratiche.
Alla fine del seminario che ha visto la presenza, oltre degli esponenti dei giovani industriali e di una trentina di dirigenti e docenti, del sindaco di Catania, Enzo Bianco, e dell’assessore all’istruzione, Valentina Scialfa, abbiamo posto alcune domande al Capo della segreteria tecnica.
Francesco Luccisano non ha voluto però essere ripreso per cui riportiamo solo la traccia audio dell’intervista e la sua trascrizione.
Come mai nel rapporto sulla Buona Scuola non si menziona il personale Ata?
Ovviamente la politica ha il compito di dettare delle priorità. Abbiamo analizzati i problemi del sistema scuola e abbiamo pensato che inizialmente dovessimo occuparsi della grossa falla, quella riguardante la carriera degli insegnanti.
Come si può fare una riforma della scuola senza pensare al personale amministrativo? Sono quasi 200.000 persone.
Sicuramente è nel nostro interesse risolverlo e abbiamo proprio lavorato per evitare il pregiudizio che il personale Ata, e in particolare i bidelli, non facciano neanche le pulizie… In pratica, invece, fanno praticamente tutto.
Di quale parte del Rapporto si è occupato?
Praticamente tutte, è stato un grande lavoro ma ci è stato un grande staff di esperti che ci ha supportato (durante il suo intervento Luccisano aveva dichiarato che aveva passato tutta l’estate a stendere il rapporto e che gli erano saltate le vacanze e l’organizzazione del matrimonio, ndr).
E’ notizia di oggi che sono stati previsti tagli di 500 milioni di euro per l’istruzione? Come pensate di attuare la riforma?
Io penso che faccia fede il fatto che il Governo investirà in modo massiccio. In passato ci sono stati storie di tagli ed è vero, ma noi stiamo investendo sugli insegnanti, sull’alternanza scuola-lavoro, sui laboratori, sulle competenze. Questo va messo a registro.
Carriera degli insegnanti: ci sarà un nucleo di valutazione. Da quante persone sarà formato? Perché è stato determinato proprio il 66% e perché permettere che i docenti valutino altri colleghi?
Innanzitutto inserire un meccanismo che permetta agli studenti e alle famiglie di valutare i docenti, i dirigenti e le scuole credo che sia difficilmente criticabile. Gli studi Ocse dicono che i docenti vogliono essere formati e valutati. Non ci saranno gare di bellezza né tra scuole, né tra gli insegnanti. Ogni scuola deve valutare come sta “performando” e quando può migliorare. Noi parliamo di un piano di miglioramento triennale. Dunque, il liceo del centro città non farà la gara con l’istituto professionale della periferia.
Perché il 66%? Perché non interessava selezionare una quota troppo ristretta, “un’elite” di docenti all’interno della scuola, ma una quota più ampia. La cosa che non viene sottolineata è che la valutazione avverrà ogni tre anni, oggi gli scatti di anzianità che vengono dati a tutti indistintamente sono ogni 9, 7 anni. Questo significa che la valutazione che avviene ogni tre anni e si azzera ogni tre anni, l’accesso possibile è aperta a tutti.
Questo significa che è aperta a tutti e che non si va a premiare sempre una piccola quota, ma si incoraggia la coesione verso l’alto dell’istituto scolastico.
Un’ultima domanda. In nove mesi, cioè entro settembre 2015, si dovrebbe riuscire a mettere in atto il piano del Governo. E se dalla consultazione dovesse venire un “no” a queste linee guida, che farete? Cancellerete tutto?
Stiamo furiosamente lavorando sull’attuazione del Rapporto. Dall’a.s. 2015/2016 dovrà essere attivato il Piano e i tempi sono ristretti. Il Governo ha l’obbligo di fare una proposta politica. La consultazione si può fare sul sesso degli angeli o su un documento politico che produce il Governo. La consultazione non è un voto.
La scuola è un sistema complesso che può essere migliorato solo sentendo gli utenti. La consultazione è realizzata proprio per migliorare la nostra proposta. Stiamo già leggendo tutto quello che arriva.
 


 

  • Il monito del Consiglio d'Europa: nelle scuole più spazio alla convivenza e più soldi ai prof.

Lo ha chiesto l'assemblea parlamentare di Strasburgo con il rapporto "buona governance e migliore qualità dell'istruzione" del sen. Paolo Corsini (Pd): servono politiche che promuovano la libertà di pensiero e favoriscano l'apertura verso l'altro e lo spirito critico. Ma anche che assicurino stipendi adeguati agli insegnanti in modo da rendere la professione più attrattiva.

La Tecnica della Scuola, del 01-10-2014, di Alessandro Giuliani

Le politiche scolastiche devono prevedere maggiori risorse e qualità. A chiederlo è stata, il 30 settembre, l'assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, attraverso il rapporto "buona governance e migliore qualità dell'istruzione" del senatore Paolo Corsini (Pd).
Nel documento, presentato a Strasburgo, si denuncia che ancora oggi la scuola europea non sarebbe all'altezza delle sfide come crisi economica, disoccupazione, immigrazione, razzismo crescente, che la società sta affrontando. Si chiede quindi agli Stati dell’UE di promuovere politiche scolastiche che lottino contro l'esclusione, che promuovano l'uguaglianza dei sessi, che facciano della scuola uno spazio di convivenza civile, un ambito dove si rispetta la libertà di pensiero e di coscienza, e che favorisce l'apertura verso l'altro e lo spirito critico.
Le nuove politiche dovrebbero anche assicurare stipendi adeguati agli insegnanti in modo da rendere la professione più attrattiva (l’Italia è uno dei Paesi UE che da questo punto di vista sta messo peggio n.d.r.). Oltre che prevedere un tutoraggio dei docenti affinché possano assumere le migliori pratiche di insegnamento. E andrebbero messe in atto procedure per valutare la qualità dell'insegnamento.
Nel rapporto UE si chiede, infine, di fare particolare attenzione alla corruzione in ambito scolastico. Questo, spiega Corsini, ha due risvolti: "Innanzitutto la scuola deve dare gli anticorpi contro la corruzione, per esempio introducendo codici etici, ma bisogna anche assicurare che le risorse finanziarie date per la scuola non siano sottratte dalla corruzione, come può succedere con gli appalti di costruzione dei complessi scolastici".
 


 

  • Servizi e comunicazioni

Tullio De Mauro: “La scuola di Renzi è un passo nel vuoto”

Scuola, inglese, riforme, parole. Intervista a Tullio De Mauro, linguista ed ex ministro della Pubblica Istruzione
Retescuole, del 30-09-2014

«In Francia è stata fatta una consultazione sulla scuola, ma vennero prima formulate le domande. È stato un metodo serio. La consultazione di di Renzi non mi sembra seria».

di Carmelo Caruso

Si abusa delle parole? «Si abusa spesso, ma è impossibile sanzionare l’abuso di parola». E’ la parola “scuola” la nostra parola abusata? «L’abuso è largo, ampio». Matteo Renzi abusa della parola scuola come abusa dell’inglese? «Il primo abuso è la parola riforma. Ormai si usa per il più banale provvedimento». Le piace la “Buona scuola” del governo? «Mi sembra vaga. Quali risorse? Quali tempi? Ho l’impressione che sia un passo nel vuoto».
Nel suo appartamento romano, anzi romanesco, direbbe lo storico che ha nobilitato sillabe e dialetti, Tullio De Mauro sorveglia gli innesti dell’idioma, i guasti della lingua che ha contribuito a elevare a scienza sfidando perfino le raccomandazioni del patriota Niccolò Tommaseo che considerava la linguistica la disciplina dei barbari. «Sono e rimango un linguista». Ministro per responsabilità? «In realtà da un bottone ho fatto un cappotto». De Mauro è il più integro dei ministri restituitoci da Trastevere, un ministero che ha flagellato carriere di storici, rettori, politici, il vero cimitero delle buone intenzioni italiane. E infatti il professore, restituito al diletto e al divagare, è un indulgente uomo di lettere di 82 anni vestito come un preside tutto sintassi e disciplina, un brevilineo che si controlla a tavola, tradito da orecchie alate che gli tolgono severità accademica.
Renzi riuscirà a riformare la scuola? «C’è sicuramente più comprensione rispetto al passato, ma si deve capire dove e come riformare. Antonio Ruberti, ex ministro della Pubblica Istruzione, usava la formula “suscitare attese”, annunciare cose che non si possono realizzare. Ho questa stessa impressione leggendo la “Buona Scuola”. Sono buoni annunci, ma vengono ignorati i meccanismi di realizzazione». Si possono assumere 148 mila precari in un anno? «No, è fuori dalla realtà per ragioni finanziarie. Non si sa dove possano essere recuperati nel bilancio del 2015».
De Mauro si protegge dalla conversazione inutile resistendo al telefonino che si ostina a non acquistare e dice che così tesaurizzi tempo, «se lo avessi le sollecitazioni alla conversazione sarebbero tante», un capitale munifico di ore che rendiconta e spartisce, insomma esaurisce. Ed esaurimento è la parola che utilizza la scuola per indicare i supplenti che sono appunto a (rischio) esaurimento, daex haurire: dissolti, consumati e dissipati. È giusto assumere in blocco i precari delle graduatorie ad esaurimento? «Anche questo aspetto mi sembra discutibile. Si dice: assumiamo tutti. In realtà, molti precari sono bravi, molti no. Hanno insegnato con mille difficoltà. E’ stato impossibile per loro aggiornarsi». Si possono lasciare fuori gli insegnanti che si sono abilitati negli ultimi anni e gli idonei dell’ultimo concorso? «Comprendo le loro proteste. Hanno ragione. Sono i sopravvissuti che vengono così lasciati ancora nell’indeterminatezza. Servivano concorsi con cadenza biennale, come del resto era previsto dalla legge». Basta un riconoscimento di 60 euro per motivare i nostri professori? «Da ministro feci avere un aumento di 100 euro. L’Ocse dice che c’è una relazione tra retribuzione economica e produttività. Il deprezzamento finanziario attrae solo santi missionari». La convince il sistema di valutazione degli insegnanti? «Mi lascia perplesso così come la parte che riguarda i presidi».
La biografia di De Mauro, che ha accettato di pubblicare per il Mulino, forno nazionale di idee, è un esempio di scrittura parca dal titolo gozzaniano Parole di giorni un po’ meno lontani, un incrocio di vocali e atenei, la vita piena e militante dello studioso di sinistra. La sinistra ha rallentato l’evoluzione della scuola? «La sinistra è stata riottosa di fronte allo sviluppo della scuola. Ha dominato l’idea paritaria, promossa dai sindacati, che i dipendenti pubblici siano tutti uguali. Anche uno studioso vicino al Pci come Concetto Marchesi non voleva l’innalzamento dell’obbligo scolastico».
L’inglese della “Buona scuola” sarà sempre quello di Nando Mericoni, americano che parla come i sonetti del Belli? «Nel piano del governo si dice che bisogna studiare più lingue straniere, ma gli insegnanti alle elementari non ci sono. Manca la competenza. Si è provato a formare docenti d’inglese con 50 ore, purtroppo non è così che si impara a insegnare». L’inglese di Renzi è l’ultima polverosità della politica? «Utilizzato in quel modo è inutile, ma ci fa sentire più sicuri, ci veste di internazionalità a buon mercato. Non è altro che il latino usato dall’Azzeccagarbugli con Renzo. Chi sa parlare davvero l’inglese ha imbarazzo a parlarlo».
Nella “Buona scuola”, che De Mauro ha letto, c’è il diluvio dell’inglese, l’alluvione dello slang manageriale: comfort zone,problem solving, design challenge, digital divide, gamification, nudging, digitalmakers, hackathon, la nuova antilingua che imbroglia ma non spiega. I neologismi illuminano o oscurano? «Credo che il nostro premier ricorra ai neologismi perché gli mancano le parole o non vuole usare le parole giuste». È la supplentite la sciagura della scuola? «La sciagura non sono i supplenti, ma i vecchi programmi, l’aggiornamento, i bassi stipendi, la confusione amministrativa».
E deve essere proprio il disordine l’avversario di De Mauro. La sua casa rispetta la grammatica dell’uomo di tempra solida, la rigidità morale dei filosofi campani, l’etica di Croce e l’empirismo di Vico. E c’è la stessa essenzialità nelle sovrane maniere, nell’arredamento delle sue stanze che divide con la moglie anch’essa studiosa della lingua, nella libreria che è una composizione immune da bizzarrie che invece di riempirsi si svuota di libri, «li dono. Gli ultimi che ho regalato sono testi dialettali».
Perché la scuola è irriformabile? «Non si è mai riuscita a riformare perché la classe politica, imprenditoriale ha sempre nutrito una diffidenza verso l’istruzione. Queste classi non amano la crescita del livello d’istruzione. Norvegia e Finlandia erano paesi poveri ma hanno puntato sull’istruzione a partire dalla bellezza degli edifici. Qui gli unici edifici di valore sono quelli di Reggio Emilia e Ferrara». Non sono le stesse parole di Renzi? «Giuseppe Bottai che era un razzista, ma un grande ministro, per i primi sei mesi preferì ispezionare le scuole senza nessun preavviso. Questo significa andare a vedere seriamente le scuole». Il primo giorno di scuola con i ministri è stato solo passerella? «No. E anche se fosse, meglio questa passerella che Porta a Porta». Le riforme si condividono? «In Francia è stata fatta una consultazione sulla scuola, ma vennero prima formulate le domande. È stato un metodo serio. La consultazione di Renzi non mi sembra seria». Detesta la velocità? «La politica deve essere veloce, ma la velocità è diversa dalla fretta. C’è la voglia di accelerare di affrettarsi per poter spendere eventualmente questi provvedimenti in una competizione elettorale». Ha smesso di insegnare? «Da quattro anni». Le manca? «Mi manca e tornerei. Negli Usa non c’è un limite di età. Tuttavia è giusto lasciare il passo». È un parruccone, un “professionista della tartina” come dice il premier? «Mi sembra aria fritta questa polemica». Si stanca a volte di leggere? «Di leggere no, di leggere scemenze sì. Per i buoni libri ho ancora tempo».

http://www.panorama.it/news/politica/tullio-de-mauro-scuola-renzi-vaga-cosi-passo-nel-vuoto/
 


 

  • Il governo punta sulla meritocrazia e meno sulle carriere per anzianità

Ieri l’incontro Renzi-Giannini sulle linee guida

La Stampa, del 02-09-2014, di Lorenzo Vendemiale

L’ultima rifinitura prima del l’appuntamento decisivo, ancor più atteso dopo l’improvviso rinvio della settimana scorsa. Matteo Renzi ha incontrato Stefania Giannini per definire i dettagli della riforma della scuola. Verrà annunciata domani, probabilmente sul nuovo sito dei «Millegiorni », senza conferenza stampa (anche se qualcosa potrebbe essere organizzato all’ultimo momento). Come sottolineato dal premier, il pacchetto «è pronto da tempo» grazie a «mesi di lavoro comune». Il vertice a Palazzo Chigi è servito allora per chiarire gli ultimi punti della presentazione (la Giannini mercoledì dovrebbe essere a Bruxelles). E un po’ anche per mettere a tacere le voci sui presunti dissapori tra i due: dopo il mancato incontro della settimana scorsa, la Giannini era stata inclusa nella lista dei ministri in bilico in caso di rimpasto. Eventualità già smentita ma non del tutto archiviata (anche se non sarebbe stata discussa ieri). Non c’è ancora un provvedimento vero e proprio da illustrare, piuttosto quattro-cinque linee guida su cui orientare il lavoro dei prossimi mesi. Subito – ha spiegato Davide Faraone, responsabile istruzione del Partito Democratico – partirà «una grande consultazione con tutti i soggetti del la scuola ». Poi comincerà la partita delle coperture, da definire nell’ambito della Legge di stabilità: il governo si è impegnato per un miliardo di euro, ma col Tesoro per il momento non c’è stato un vero confronto. L’attesa maggiore è per il piano di immissioni in ruolo, che dovrebbe coinvolgere direttamente circa 100mila insegnanti da assumere, e indirettamente tutti i 500mila precari iscritti nelle graduatorie, con un superamento dell’attuale sistema di supplenze. È la misura più impegnativa anche dal punto di vista economico: il Ministero spende già il 70% del suo bilancio per gli stipendi del personale; e sulla realizzazione del progetto pesano diverse incognite. Ma il sindacato Anief insiste: «L’anno scolastico inizia con un posto su sette scoperto. La stabilizzazione dei precari dev’essere la priorità del governo e va fatta subito». Renzi ha comunque precisato che la riforma «non si articola » su questo. E che «il Paese chiede di valutare il lavoro degli insegnanti». Di sicuro, dunque, si parlerà di revisione dell’attuale contratto, che consentirebbe di introdurre criteri più meritocratici nell’avanzamento di carriera (e forse anche di recuperare risorse). Ma sul tema sindacati e insegnanti hanno sempre fatto le barricate. «Gli scatti di anzianità non si toccano », avverte Rino Di Meglio, dell’associazione di categoria Gilda. Il capitolo docenti dovrebbe chiudersi con la riforma del sostegno ai disabili, con una riorganizzazione quantitativa e qualitativa dell’organico . Il resto riguarderà la didattica. Da una parte più informatica e decisa accelerazione sull’alternanza scuola/lavoro (su cui è arrivato il plauso di Confartigianato: «Giusto valorizzare l’apprendistato)»; dall’altra recupero di materie tagliate in passato, come storia dell’arte e geografia. Tutto nel report «La buona scuola», di cui Renzi ha mostrato in conferenza stampa la copertina: per il contenuto bisognerà attendere ancora 24 ore.
 


 

  • La buona scuola passodopopasso

Le Linee guida domani sul sito del governo. Pronta la piattaforma per la consultazione. Renzi pronto a cedere sul piano di assunzioni, sì al turnover

ItaliaOggi. Del 02-09-2014, di Alessandra Ricciardi

ll sito, passodopopasso.it, c'è. Così come è stata ultimata la piattaforma su cui saranno raccolte e analizzate le opinioni delle categoria e dei semplici cittadini (molto simile, pare, a quello che l'ex ministro delle riforme Gaetano Quagliariello strutturò per le consultazioni sulle riforme istituzionali nel 2013).
La macchina delle Linee guida sulla riforma della scuola insomma è pronta. Così come lo slogan, «la buona scuola», che campeggia sulla copertina del programma. Programma ormai definito. Matteo Renzi ieri ha avuto un vertice con il ministro dell'istruzione, Stefania Giannini, che è stato definito dai presenti molto positivo. Domani le Linee guida andranno direttamente sul sito passodopopasso che raccoglie il programma di governo dei prossimi millegiorni. Salvo sorprese dell'ultima ora, non ci sarà a Palazzo Chigi la conferenza stampa che avrebbe dovuto dare peso, anche mediatico, alla riforma della scuola. «Per un po' basta con le conferenze stampa», ha dichiarato ieri il premier.
Un ridimensionamento comunicativo che è conseguenza diretta, è questo il rumors di palazzo, del ridimensionamento delle immissioni in ruolo, il capitolo più atteso dall'esercito dei 500 mila precari. Il condizionale è d'obbligo, ma pare proprio che il premier sia addivenuto a più miti consigli, rinviando, almeno nell'immediato, il mega piano per 120 mila-130 mila assunzioni da fare in un solo anno, il 2015. Quello che concretamente può essere fatto, è stato detto dal Tesoro, è assumere sui posti lasciati vacanti dai pensionamenti che ci saranno nei prossimi tre anni e forse anche sui posti di ruolo disponibili che normalmente vengono dati a supplenze annuali. Tra l'altro, per questo vulnus, ossia la copertura dei posti di organico di diritto con personale a tempo determinato per periodi superiori ai tre anni, lo stato italiano potrebbe essere a breve sanzionato dalla Corte di giustizia europea.
In tutto si tratterebbe di immettere in ruolo 100 mila docenti in tre anni. Un'operazione che tra l'altro aveva già avviato il governo Letta. In tal senso era già pronto un accordo da sottoporre alla firma dei sindacati per garantire la piena invarianza economica delle nuove assunzioni: prolungamento del servizio necessario a maturare il passaggio al secondo scatto stipendiale. Per i nuovi assunti la prima posizione sarebbe di durata 0-11 anni di servizio (come stabilito dall'ultimo accordo), la seconda risulterebbe di durata 12-14. Una riduzione in pratica del peso della busta paga in cambio dell'assunzione a tempo determinato.
Del resto, gli aumenti potrebbero invece arrivare con la carriera, che è l'altro punto forte del programma di riforma per la buona scuola. Per superare le critiche di chi però accusa il governo di volere di fatto attuare il programma del centrodestra, Renzi attende il consenso di chi nella scuola lavora. In tal senso, il dettaglio sulla strutturazione della carriera dei docenti potrebbe aversi più tardi, a gennaio quando la consultazione sarà ultimata. Strettamente connessa alle azioni di miglioramento del sistema, c'è poi la valutazione nazionale degli istituti scolastici, già prevista dalla legge e che inizierà da quest'anno. Il sistema è pronto, la relativa direttiva è fatta, si attende solo la circolare per le scuole..
E poi c'è l'altro capitolo, quello delle misure per gli studenti: più apprendistato, stage nelle imprese anche per i liceali, apertura dei laboratori ai finanziamenti dei privati, introduzione flessibile di alcune discipline, dalla storia dell'arte alle superiori al potenziamento dell'inglese alle elementari. E più nidi, raccogliendo in questo il consiglio degli esperti di scuola del Pd. «La parola d'ordine di questo governo è coinvolgimento, non riforme catapultate ma costruite insieme», commenta Davide Faraone, responsabile scuola del partito democratico.
 


 

  • Giannini  Voglio una scuola libera all'olandese

Concorsi biennali. Fine degli organici di diritto. Valutazione. Autonomia. Parità. Costi standard.«Se Renzi ci sta, la pubblica istruzione mette le ali».

TEMPI, del 03-07-2014, di Luigi Amicone

INCONTRIAMO STEFANIA GIANNINI, ministro dell'Istruzione, in una Roma subtropicale di sole che si avvicenda agli scrosci d'acqua a catinelle. Sarà il monsone, sarà che le vestigia della dinastia Flavia sembrano più recenti dell'urbanizzazione recente, la città capitolina nell'anno 14 del secondo millennio sembra racchiusa in un aforisma di Kafka. «Le carte della burocrazia sono le catene dei popoli». Varchiamo la soglia del ministero da cui dipendono qualcosa come un milione di addetti statali. E non c'è niente che rammenti una possibile via di fuga dalle catene se non un lesto e impeccabile portavoce del ministro (il manager giramondo Alessandro Leto, «ma la famiglia non la porto in Italia, per adesso sta a Ginevra, vedremo come andrà questa avventura»), lo stesso tonico e allegro ministro, la sua silenziosa équipe. «Tra la fine di luglio e gli inizi di agosto annunceremo con il presidente del consiglio i provvedimenti che insieme a quelli sulle infrastrutture completeranno l'agenda di riforme dei primi mille giorni di governo Renzi», ci prospetta subito il ministro. Tu vieni dalla notizia del suicidio di una ragazzina che si è buttata giù dal tetto di una scuola a Forlì e capisci che per quanto abbiano affidato ai sacerdoti delle procure di "fare giustizia", la somma iniuria è proprio che non si riesca a fare un passo oltre l'obitorio giudiziario. Altro vestibolo della morgue? «L'accanimento terapeutico così lo definisce Giannini con cui, in ambito scolastico e universitario, si è insistito e riformato sul piano procedurale.
Gli ultimi quindici anni di storia del sistema educativo italiano è stato fatto sulle procedure». Riflettiamo: «Abbiamo avuto quattro diverse forme di reclutamento del corpo docente e l'interruzione del flusso di reclutamento medesimo. Risultato, dati Ocse di settimana scorsa, l'Italia è il paese con gli insegnanti più anziani, età media 48,9 anni e 50 per cento oltre i 50». La scuola più vecchia del mondo Più in dettaglio l'anagrafica della scuola italiana è la seguente: detiene il primato della classe insegnante più vecchia (6 anni in più rispetto alla media Ocse) ed è rappresentata per il 79 per cento da donne. Il 39,2 per cento dei prof di scuola primaria e secondaria ha tra i 50 e 59 anni, 1'11,1 60. Sotto i 40 anni sono solo il 16,7 per cento e under 30 appena 11. Le ragioni di questo nostro sistema che si regge sulle generazioni dai capelli imbiancati? Lenin una volta disse: «Date a un capitalista abbastanza corda e si impiccherà da solo». È quello che ha fatto lo Stato con il '68. Da quella corda data ai profeti della "scuola di massa", unica, centralizzata, uguale per tutti, inquadrata nell'ideologia del funzionariatodemocrat, un esercito di insegnanti, non docenti, bidelli, figure da stato assistenziale (in cambio di un voto ai partiti assistenziali e di una tessera sindacale) è andato a ingrossare le fila del precariato. E così, una marea di azzeccagarbugli, leggi, regolamenti, conflitti giuridici, corsi e controricorsi, piazze in subbuglio, hanno infine prodotto muffa burocratica e infinita "guerra tra poveri". Oltre che, ovviamente, l'annientamento di ogni possibilità di liberare risorse per investimenti nell'istruzione.
Se oltre il 90 per cento della spesa pubblica per la scuola finisce nei (miserabili) stipendi degli insegnanti e nei sussidi all'esercito dei precari, cosa vuoi cambiare in un comparto che da cinquant'anni funziona come "posto fisso statale", surclassa nei costi la scuola paritaria che svolge lo stesso identico servizio pubblico di quella statale (ma costa mediamente allo Stato 500 euro ad alunno, contro i 7.319 euro che invece spende per ogni allievo di scuola statale) e ha il "vantaggio" di tenere unita per tutto il Regno una certa fissità ideologica e, soprattutto, assicura un certo gigantesco serbatoio di voti? Al via i concorsi biennali La categoria dei cosiddetti precari storici, quelli delle graduatorie a esaurimento, consta di circa 170 mila unità. «Saranno riassorbiti in dieci anni», aveva anticipato Giannini nella sua prima audizione in Senato. Come? Nei concorsi a cadenza biennale, annuncia il ministro, «a partire dal 2015, mentre già quest'anno mandiamo i test preselettivi dei Tirocini formativi attivi» (Taf, porta di ingresso all'insegnamento). Ma che tra questa "rivoluzione del reclutamento" e una cattedra di insegnante ci sia di mezzo il mare lo dicono i numeri. Per 147 mila candidati al concorso 2015 i posti a disposizione saranno solo 22.748. Gli aspiranti a una cattedra sono per lo più donne (70 per cento) di età media 33,6 anni. Ma per i primi otto anni la metà delle cattedre disponibili andranno ai precari storici, mediamente quarantenni e over. Insomma, non si intravvede la fuoriuscita da un sistema ingessato. Voi del "fenomeno" Renzi ci credete ancora alla luce infondo al tunnel? «Per intanto cerchiamo di dare un taglio netto all'impostazione che ha inchiodato il nostro modello educativo a una prassi quasi esclusivamente procedurale e proviamo a rispondere non alla domanda di quali nuove leggi ha bisogno la scuola, ma per quale scuola e per quale società vogliamo lavorare. E allora il disegno che stiamo pian piano cercando di comporre non agisce sulle procedure, ma agisce sulla visione». Concretamente? «Primo pilastro: la valutazione necessaria. Se tu non riesci ad avere una misurazione quantitativa e una valutazione qualitativa del processo educativo, non sei poi in grado di verificare quali sono i punti di forza e quali di debolezza del sistema, statale o non statale che sia. Ci sono regioni come la Lombardia che hanno un sistema educativo avanzato anche sotto questo profilo e aree del paese in cui non è mai successo niente di tutto questo. Si è lavorato molto bene sull'introduzione del sistema Invalsi che, a dispetto del nome che scatena allergie, ha una sua nobiltà di intenti perché va a diagnosticare e misurare le competenze molto specifiche di due punti basilari: matematica e comprensione linguistica testuale. Ma Invalsi da solo non è strumento sufficiente, devi collegarlo e siamo al secondo pilastro a una gestione autonoma e responsabile delle scuole».
Interrompiamo il ministro e domandiamo se per "autonomia" intenda finalmente qualcosa di più della libertà di gestire carte. Per esempio: parliamo di autonomia nei termini auspicati dalle berlusconiane Gelmini e Centemero ma anche dal postcomunista Berlinguer e dal responsabile scuola del Pd Faraone, ovvero, per dirla con un tweet della deputata renziana doc Simona Malpezzi, «Scuola: diamo una reale autonomia finanziaria e progettuale agli istituti»? I "pilastri" di una rivoluzione Risposta del ministro: «Non voglio e non posso anticipare le conclusioni tecniche e operative del provvedimento istruzione che annuncerà il presidente del Consiglio alla fine dei necessari approfondimenti che esige questo nostro dibattito. Ma l'autonomia gestionale esiste già perché già c'è una legge sull'autonomia delle scuole. Però se poi tu non dai al dirigente scolastico e a cascata ai suoi docenti gli strumenti e i metodi per esercitarla, l'autonomia rimane un nobile principio un po' come la legge Berlinguer sulle scuole paritarie. La parità ce l'abbiamo, no? Di che dobbiamo lamentarci? Già, ma se poi non c'è ossigeno, non ci sono le risorse per attuarla concretamente, la parità non significa niente. Dunque, personalmente mi aspetto un provvedimento che realizzi una autonomia reale. Che non significa arbitrio di gestione: significa che tu hai un budget. Chiaro che per fare questo occorrono risorse adeguate». Dunque, valutazione, autonomia, responsabilità. «E verifica delle politiche di gestione. Perché se dai autonomia al dirigente scolastico devi poi essere in grado di premiare o di ritirare risorse». Altro? «Sì, vogliamo superare subito quell'altra camicia di forza tipicamente italiana che sono i cosiddetti organici di diritto. Si tratta sostanzialmente di un organico programmato sulla base del numero degli studenti e che viene assegnato da Roma in maniera rigida alle singole Regioni, poi da lì alle singole circoscrizioni provinciali. Vogliamo trasformare questo organico di diritto in organico tecnicamente chiamato "funzionale", cioè modellato sulla realtà». Cosa significa? «Significa avere i docenti secondo il bisogno, ovvero completare gli organici là dove c'è necessità di completarli e alleggerirli là dove questa necessità non c'è. Le assicuro che questa è una rivoluzione attesa da molti anni dal mondo della scuola». Scusi, l'altra rivoluzione attesa è il rispetto da parte dello Stato italiano delle proprie leggi. La legge Berlinguer 62 dell'anno 2000 sostiene che il sistema della scuola pubblica italiana è un tronco a due rami, la scuola statale e la scuola non statale paritaria. D'altra parte siamo il fanalino del mondo libero. Nel 1950 le scuole non statali in Italia rappresentavano il 27 per cento del nostro sistema di istruzione. Oggi sono più che dimezzate e rappresentano solo il 12 per cento. Una tendenza completamente opposta a quella di tutti gli altri paesi Ocse. In Olanda, per esempio, le scuole non statali finanziate dallo Stato perché riconosciute come parte del sistema pubblico di istruzione sono addirittura il 71 per cento del totale. Cosa aspetta l'Italia ad allinearsi all'Europa, stabilendo parità di trattamento economico per tutte le scuole, ad esempio mediante la definizione di un "costo standard" per studente? Cos'altro occorre per buttare giù l'assurdo Muro di Berlino che resiste solo in Italia? Un corso di perestroika tenuto da Gorbaciov per spiegare (anche a qualche genio della Fondazione Agnelli) che la Guerra Fredda è finita, sono finite le ideologie, viviamo in una società aperta e plurale, "parità scolastica" non significa "privilegi", non è "sottrarre risorse alla scuola pubblica", ma è esattamente il contrario? C'è bisogno di un master ad Harvard per capire che "pubblico" secondo la legge Berlinguer e secondo tutte le leggi del mondo libero non è sinonimo di "statale"? Ministro, il governo Renzi riuscirà ad abbattere questo muro? «Guardi la mia sensazione è la seguente: premesso che ? ?i tempi sembrano maturi perché questo possa avvenire e dico "maturi" perché c'è un indirizzo garbatamente rivoluzionario in questo governo mi parrebbe curioso che nell'ambito della scuola questa coraggiosa azione di riforma strutturale non avvenisse. Però le dico "sì", se e solo se: primo, si riesce a fare per la scuola quello che si è fatto col decreto Poletti sul lavoro, cioè ci si libera di alcuni pregiudizi culturali. Perché la confusione da lei citata tra pubblico, privato e, vado avanti absitiniuriaverbis, pubblico-privato-cattolico-clericale, perché questa è la filiera semantica, è frutto di una struttura pregiudiziale del dibattito italiano sino ad oggi. Questo è un dato oggettivo. Pensi alla discussione veramente fuorviante che abbiamo avuto lo scorso anno a proposito del referendum sulle scuole paritarie a Bologna. Mi stupì che anche persone di alto livello culturale sostenessero allora proprio ciò che ha censurato lei, e cioè che pubblico è sinonimo di statale. Questo no. Questo non è così. Ma non è così oggettivamente. Tu devi distinguere tra servizio e gestione che più attori debbono e possono svolgere, e finalità e obbiettivi che nel campo dell'istruzione si riassumono in un'educazione di qualità ispirata a modelli plurali. Perché è questo ciò che una società avanzata deve fare. Voglio dire, lo facevano i classici greci! Sarebbe singolare che in età postmoderna si ritornasse a qualcosa che è addirittura precedente alla classicità. Dunque, per prima cosa occorre che ci si liberi da questi pregiudizi e credo che ci siano delle buone condizioni perché ciò possa avvenire». Esemplifichiamo. «La prima condizione è che la parità scolastica non sia più un tema di parte e, per dirla brutalmente, il tema di una certa sinistra che è contro il paritario perché diventa privato, perché diventa cattolico e perché diventa clericale. Ma è e deve essere un tema condiviso alla luce di uno schema europeo e di un principio di libertà di scelta educativa che è principio inoppugnabile, qualunque sia la politica alla quale si appartenga». Una scuola alla Robben Altre condizioni? «Sì, il governo può abbattere quel muro, se e solo se ci saranno risorse aggiuntive per questo capitolo». Oddio. Ma per recuperare risorse non basterebbe introdurre il "costo standard"? Lo state facendo con la riforma della Pa. Ma le sembra possibile che nelle condizioni attuali di già ampio disagio strutturale, quando il governo valuta a tre miliardi il costo di interventi sul solo versante dell'edilizia scolastica, si registri l'incredibile divario tra statale e non statale, per cui il costo medio di ogni studente statale supera i 7 mila euro anno, così, di default, sia lo studente scolarizzato a Scampia o lo sia a Bolzano; sia che frequenti un istituto statale sgarrupato come quello dei famosi alunni del Marcello d'Orta o l'aristocratico liceo classico statale Berchet di Milano? È difficile trovare scuole paritarie (e perfino scuole private di eccellenza) con rette superiori ai 7 mila euro... Non pensa che la definizione di un "costo standard" per studente consentirebbe di risparmiare e reperire risorse adeguate da ripartire equamente tra scuole statali e scuole non statali che svolgono lo stesso identico servizio pubblico? «Ci stavo arrivando. Infatti la terza condizione è l'applicazione del "costo standard". Ergo, la dimostrazione che se per assurdo le due condizioni dette sopra non si realizzassero, magari non sotto il governo Renzi ma tra cinque-sei anni, il sistema delle paritarie si spegnerebbe. Ma se si spengono le paritarie, saranno 6 miliardi e spiccioli in più che graveranno sul bilancio del già oneroso bilancio dello Stato. Dunque, al di là delle considerazioni culturali e di principio fatte sopra, mettiamoci pure la benda della cecità politica: a noi Stato italiano cosa conviene? Alla fine ci conviene parità e costo standard». Esatto. Infatti il simpatico conto della serva fatto da uno studioso della Fondazione Agnelli in un articolo per il Corriere della Sera ha due limiti evidenti: primo, che non siamo più all'epoca per cui tu fai l'accordo col Pcus e via tutti a produrre Fiat a Togliattigrad. Fuor di metafora: in base a quale principio europeo vuoi obbligare gli studenti delle paritarie ad andare a prendere un posto a tavola nelle statali? Secondo limite: vuoi far risparmiare lo Stato ma non gli chiedi di fare economia di scala sulla base del sistema che costa di più, ma su quello che costa di meno. Dunque, il ragionamento della Fondazione Agnelli andrebbe rovesciato. O meglio, andrebbe applicato fino alle sue ultime conseguenze: abolizione della scuola di Stato e libera concorrenza di scuole non statali. In questo modo avrai la sicurezza matematica che la concorrenza abbatterà i costi dell'istruzione (d'altronde, cari Agnelli, ma se nel mondo libero le scuole non statali sono in crescita esponenziale una ragione ci sarà e non sarà certamente di natura confessionale, ma squisitamente culturale, economica e di efficienza). Dunque, allo Stato italiano conviene passare da un sistema scolastico che non esiste più neanche a Togliattigrad a un sistema alla olandese che produce i Robben così noi tifosi speriamo dopo l'eliminazione dei nostri campioni del mondo.

 


 

  • Flessibilità e stipendi, ecco come si cambia

Nel nuovo piano stipendi più alti orari e flessibilità Una legge delega per cambiare l'istruzione in Italia. Nel piano del ministero l'apertura pomeridiana degli istituti e l'estensione a 36 ore di tutti i docenti di ruolo. Resta il nodo dei precari storici.

l'Unità, del 03-07-2014

Una legge delega per cambiare verso alla scuola italiana. Con apertura degli istituti anche di pomeriggio, orario a 36 ore settimanali per tutti i docenti di ruolo con un aumento dello stipendio ma solo per chi svolga incarichi supplettivi particolari, cancellazione delle supplenze brevi e delle graduatorie di istituto, e molto altro. A questo lavora al Miur il sottosegretario Roberto Reggi con il gruppo chiamato a elaborare proposte sulla carriera degli insegnanti (su cui è arrivata anche un'indicazione Ue per una maggiore diversificazione dei percorsi dei docenti), con l'obiettivo appunto di portare una bozza di legge sul tavolo del premier Renzi tra meno di 15 giorni. Al centro dell'impianto una parola chiave, flessibilità, e una figura, quella del dirigente scolastico chiamato a gestire tutta l'organizzazione degli orari. Un impianto che non dovrebbe comportare costi aggiuntivi ma piuttosto risparmi, per 1.5 miliardi, grazie appunto all'addio alle chiamate esterne per supplenze inferiori ai 15 giorni (gli assenti saranno sostituiti dai colleghi di ruolo dello stesso istituto). Ma anche all'ipotesi di taglio di un anno nel percorso delle superiori, da ridurre da 5 a 4 anni. Si prevedono poi l'apertura prolungata fino a sera degli istituti e il calendario allungato fino a luglio, per costruire l'idea di una scuola come «spazio educativo permanente», dove possa studiare chi deve recuperare e più in generale aperta al territorio e alle sue associazioni. Per fare questo però il governo chiederebbe «la disponibilità» degli insegnanti a un impegno di 36 ore settimanali, il doppio delle attuali 18 ore di lezione in classe delle superiori (si arriva a 24 e 25 in materne ed elementari). In cambio, oltre agli scatti stipendiali ci sarebbero premi per i docenti che prestano il tempo eccedente le lezioni a ruoli di coordinamento, «al recupero, alla formazione di altri docenti, a laboratori di musica inglese o informatica piuttosto che al supporto amministrativo», spiega il sottosegretario. Insomma si guadagnerà di più, ma solo lavorando di più. Una filosofia già anticipata dal ministro Giannini. Quanto agli aumenti contrattuali "di base" (a prescindere cioè da nuove funzioni da ricoprire) che sindacati e insegnanti chiedono a gran voce da tempo per adeguare ai livelli europei un contratto bloccato da 7 anni, «su quelle ragioneremo, non ho risposte a tutto. Sono un ingegnere ricorda Reggi -, ho in mente un modello che mutua da altre esperienze di tipo aziendale».
 FLESSIBILITÀ E RISORSE AGGIUNTIVE Il sottosegretario cerca di parare le critiche che già travolsero analoghi progetti. Critiche centrate su un dato di fatto: le lezioni rappresentano solo una parte dei compiti dei docenti, tra preparazione, correzioni, progetti e rapporti con le famiglie già oggi si va ben oltre la fantomatica soglia delle 18 ore. «Se ognuno sta fermo sulle proprie posizioni non si vince la sfida del rinnovamento della scuola arringa allora Reggi -. E se vado al Ministero dell'Economia con un nuovo Patto per la scuola, come questo, e più flessibilità ho certo più possibilità di portare a casa risorse aggiuntive». Un nodo, quello delle risorse, su cui sindacati e docenti vorrebbero il vero cambio di passo dopo anni di tagli. Reggi auspica intanto che «il bilancio del Miur rimanga stabile per i prossimi tre anni, altrimenti è impossibile fare una buona programmazione». La rassicurazione per gli insegnanti è che «così realizzeremo veramente l'autonomia scolastica, sarà ciascun dirigente a valutare come usare al meglio le singole risorse umane. So che già oggi c'è chi fa anche più di 40 ore, ora chi continuerà così ma a scuola avrà degli incentivi, chi non potrà o non se la sentirà si accorderà con il dirigente». Resta da chiarire come il «Patto sulla scuola» gestirà l'anomalia italiana degli oltre 150 mila precari storici e strutturali. La proposta indica assunzioni dalle Graduatorie a esaurimento finché non saranno svuotate. Dunque ci saranno 150 mila assunzioni? «So che abbiamo un precariato di qualità, un bacino di insegnanti formati, è un tema aperto e un problema che andrà affrontato», ammette Reggi. Assicurando che comunque le assunzioni «saranno moltissime, tra il 2017 e il 2022 andrà in pensione il 40% dei docenti». La svolta immaginata da Reggi dovrebbe arrivare appunto per via legislativa, per poi aprirsi «a un momento di consultazione generale: siamo solo all'inizio di un percorso e tutti potranno migliorare questa che è la mia personale proposta. Spero venga accolta senza pregiudizi».
 


  • La scuola da ricostruire

Se l’istruzione pubblica è in questo stato non è solo per la crisi. E se deve essere rifatta non è solo nelle mura. Bisogna mutare strada rispetto a quella battuta

la Repubblica.it, del 12-06-2014, di Adriano Prosperi

CI SONO tante emergenze nel nostro paese. Ma il rapporto del Censis sugli edifici scolastici statali e le lettere dei sindaci al premier Renzi ne segnalano una gigantesca. Edifici vetusti, cadenti, pericolosi per l’amianto o perché il tetto e le mura non ce la fanno più. Lo chiamiamo patrimonio edilizio, ma più che un patrimonio è un debito: è vecchio, arretrato, è stato lasciato indietro mentre l’edilizia privata conosceva il boom. È tempo di cambiare marcia. Ma se la scuola statale è in questo stato non è solo per la crisi finanziaria e il patto di stabilità. E se deve essere ricostruita non è solo nelle mura e nei soffitti, negli impianti e nella eliminazione di rischi per la salute. Bisogna mutare strada rispetto a quella battuta da tempo: non solo in Italia.
Quella che ci ha portato qui è una strada lunga: e si è aperta davanti alle classi dirigenti e all’opinione pubblica quando ha vinto la convinzione che la scuola dovesse essere assoggettata alle leggi del mercato capitalistico. Leggi nuove: all’idea della scuola pubblica come canale formativo del cittadino e luogo di accesso ai più alti gradi del sapere sono subentrate le leggi della concorrenza per attirare i clienti-studenti e dell’efficienza che obbligava a sfornare un “capitale umano”. Inutile spreco è apparso l’obbligo dell’insegnante di formare l’allievo come personalità matura e cittadino cosciente dei suoi diritti e doveri. Occorreva addestrarlo per essere immesso sul mercato. Questa la dottrina entrata in vigore nel mondo occidentale coi governi di Margaret Thatcher e con Ronald Reagan negli Usa. Dunque, scuole pubbliche e private entravano in concorrenza. La svolta fu segnata negli Usa dal rapporto 1983 della commissione insediata da Reagan che denunziava lo stato fallimentare del sistema scolastico: la signora Thatcher ne seguì l’esempio con l’Education Reform Act del 1988.
Non parliamo delle conseguenze nel mondo anglosassone: importa invece osservare quelle che si ebbero in Italia. Il nostro paese aveva all’epoca una scuola pubblica e una università tutt’altro che disprezzabili, anche se messe a dura prova nelle loro strutture da un aumento della popolazione scolastica — dovuto al progresso economico e sociale del paese che viveva un primo avvio di correzione della ripartizione della ricchezza. Anche l’Italia subì gli effetti della nuova dottrina. Qui l’unica forma di concorrenza possibile era tra scuola pubblica e scuole confessionali: in quella direzione fu accelerato il flusso dei finanziamenti e si moltiplicarono le forme di servilismo verso le istituzioni educative di marca confessionale. La scuola pubblica dovette aprire le sue porte a insegnanti di religione nominati dai vescovi, in barba alla Costituzione. Da allora lo smantellamento della scuola pubblica e dell’università non ha conosciuto interruzione. Si poteva sperare qualcosa dalla costruzione europea. Ma qui ci siamo trovati davanti alla vittoria di un’idea di modernizzazione che recepiva in pieno il dogma liberista. Intanto, da noi si è venuta scatenando nella comunicazione pubblica un’offensiva tesa a convincere che è inutile perdere tempo a scuola. Siamo precipitati all’ultimo posto in Europa come percentuale di laureati e continuiamo a discendere nelle statistiche sul grado di istruzione della popolazione, la quantità di libri letti, la conoscenza e il rispetto del nostro patrimonio culturale.
È una corsa all’indietro che talvolta si veste di nuovi panni e si maschera da volontà riformatrice. Di recente la ministra Giannini ha promesso di abolire i concorsi universitari: non riformarli, non ricondurli alla funzione di selezionare realmente i migliori, non liberarli dalle pastoie di leggi scritte e non scritte, di bardature burocratiche soffocanti: no, cancellarli. Eppure la Costituzione, recependo un principio fondamentale della cultura illuministica, impone che agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si acceda mediante concorso: e ricorda che i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione. Con l’abolizione dei concorsi il carattere pubblico, statale, di scuola e università si intenderebbe forse anch’esso cancellato? E quali interessi privati si sostituirebbero così all’interesse pubblico, che è o dovrebbe essere quello primario di tutto l’ordinamento scolastico?

 


 

  • Fondo di istituto: non ci saranno risorse aggiuntive per quest'anno

Le somme accantonate a fine novembre (250milioni di euro circa) servono tutte per pagare gli scatti di anzianità

La Tecnica della Scuola.it, del 12-06-2014, di Reginaldo Palermo

Le somme accantonate a fine novembre (250milioni di euro circa) servono tutte per pagare gli scatti di anzianità. Per il futuro la situazione non potrà che peggiorare dal momento che fra qualche mese si aprirà anche la questione degli scatti maturati nel 2013.
Per capire meglio i numeri contenuti nell’accordo sottoscritto fra Aran e sindacati in materia di scatti di anzianità bisognerà forse attendere la firma definitiva che ci sarà dopo il visto del MEF e quindi non prima della metà di luglio.
Per intanto una cosa è già chiara e riguarda le risorse del fondo di istituto dell’anno in corso che erano state concordate fra Ministero e sindacati a fine novembre.
In quell’accordo, infatti, si era partiti dalla somma dell’anno precedente (984milioni di euro) e si era ipotizzato che se ne dovessero tagliare circa 230milioni per pagare gli scatti (il costo totale è di 350milioni, ma 120 derivano dai risparmi di sistema derivanti dalla riduzione degli organici).
Si disse allora che, per maggior sicurezza, alle scuole sarebbe stata assegnata una somma complessiva di 521milioni restando inteso che - alla fine di tutti i conti - sarebbe stato forse possibile riassegnare qualche decina di milioni di euro in più alle istituzioni scolastiche.
Adesso, arrivati alla conclusione di tutta la procedura, si scopre però che tutta la somma accantonata a suo tempo (e cioè circa 450milioni) è interamente necessaria per coprire il costo degli scatti: 124 milioni verranno recuperati dal fondo di istituto dell’esercizio finanziario 2013 e 550 dall’esercizio finanziario 2014.
I fondi per il 2014/2015 sembrano solo sfiorati dall’accordo odierno, ma in realtà quando si dovrà esaminare il problema degli scatti maturati nel 2013 il problema si ripresenterà e in modo decisamente drammatico, perché a quel punto bisognerà intaccare il fondo di altri 350milioni di euro o forse anche più.
Nel commentare l’intesa raggiunta oggi da Aran e sindacati il Ministro ha detto che adesso si tratta di darsi da fare per ripristinare adeguatamente il fondo di istituto.
Ma a dire il vero non si capisce proprio come si possano reperire e risorse necessarie.

 


 

  • "Un obiettivo da centrare per il neo ministro: attuare l'Autonomia che c'è (nel Regolamento)".

ScuolaOggi.org, del 20-03-2014, di Simonetta Fasoli

La scuola e le sue politiche tornano ad essere tra le priorità dichiarate e a quanto sembra realmente perseguite nell'agenda di governo: il lancio di un piano per l'edilizia scolastica, annunciato e oggetto di provvedimenti a breve-medio termine da parte dell'Esecutivo, sta a segnalare un'inversione di tendenza di cui non possiamo che compiacerci. Tuttavia, quando si ragiona in termini di interventi ”strutturali”, contestualmente alle strutture materiali in cui quotidianamente si fa scuola, si deve pensare a quegli aspetti non immediatamente visibili ma altrettanto sostanziali che attengono agli assetti istituzionali, organizzativi, gestionali. Anche sotto questo profilo è urgente un investimento di natura politico-culturale da parte dei decisori politici, accompagnato da un rilancio del dibattito tra tutti gli attori del sistema, a partire dalla stessa società in tutte le sue articolazioni, anche quelle variamente organizzate. Il punto focale di questo movimento non può che essere l'autonomia scolastica, più che mai ineludibile nella prospettiva della riforma del Titolo V°, altro nodo cruciale nell'agenda politica. E' maturo il tempo per superare definitivamente una concezione riduttiva dell'autonomia quale quella che abbiamo visto consolidarsi nell'ultimo decennio, sotto una duplice forma: da un lato, la ripresa neanche tanto strisciante di spinte neocentralistiche, che ne hanno depotenziato la carica innovativa a favore di una pura dislocazione di procedure amministrativo-burocratiche; dall'altro, il prevalere di una deregulation senza correttivi, che ha abbandonato le istituzioni scolastiche al destino di antiche e nuove disparità. Bisogna dunque ripensare l'autonomia all'interno di un sistema delle autonomie, dentro un quadro nazionale unitario. In questa prospettiva, si rende indispensabile procedere alla definizione dei LEP (Livelli Essenziali delle Prestazioni): non è solo un atto dovuto, la collocazione di un tassello mancante nel disegno complessivo degli assetti. E' molto di più: bisogna pensare i LEP come “presidio di diritti”, per cui diventano parte del patto educativo e criterio per un'effettiva rendicontazione. Si segnala, al riguardo, l'interessante articolato del Disegno di legge 1260 (Puglisi e altri ) attualmente in discussione presso la 7^ Commissione al Senato, che disciplina il sistema integrato di educazione e istruzione 0-6 anni : all'art. 6 troviamo definiti proprio i LEP relativi al sistema delineato. E' a tutti evidente che si tratta di una decisione di natura schiettamente politica, e proprio per questo ineludibile. Un intervento contestuale ritengo debba riguardare il governo a livello di singola istituzione scolastica, con la ripresa dell'azione legislativa in materia di revisione degli OO.CC. Si tratta di raccordare i diversi testi depositati agli atti parlamentari, rendendoli coerenti con le istanze complessive della governance, nella prospettiva delle riforme, per arrivare in tempi rapidi, operate le necessarie mediazioni, ad un esito concreto. La scuola non può permettersi di restare in una posizione fragile, e in definitiva subalterna, rispetto ai suoi interlocutori sul territorio, per mancanza di strumenti di indirizzo e di gestione adeguati alla sua funzione e alle crucialità della posta in gioco: superati gli steccati di natura ideologica, bisogna pensare a dispositivi che possano garantire la rappresentatività di tutte le componenti della scuola e del territorio, l'effettiva possibilità di partecipare al processo decisionale, nel rispetto di ruoli e prerogative, la collegialità sostanziale che valorizzi saperi e competenze dei diversi soggetti, la democrazia interna capace di coniugare efficacia dell'azione ed espressione della libertà di insegnamento sancita costituzionalmente. Finora ci si è soffermati, seppure sinteticamente, su elementi di “cornice”; ma questa disamina sarebbe monca, senza una ricognizione che riguardi anche i “contenuti”. Su questo terreno, la vera riforma sta, per così dire, scritta già nel passato; si tratta di compiere un passo che nel nostro sistema-Paese suona spesso “rivoluzionario”: dare attuazione a quel che c'è. Mi riferisco al Regolamento dell'autonomia (D.P.R. 275/99) che a suo tempo intese tradurre un disegno istituzionale in quelle che uso definire “immagini di funzionamento”. Non si tratta solo di aspetti, pur fondamentali, di natura gestionale, ma anche delle risorse normative per sostenere quell'autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo che sembra essere, in definitiva, la ragion d'essere dell'intero disegno e che può portare a sistema le buone pratiche realizzate nelle scuole. Se è l'innovazione l'orizzonte di senso dell'autonomia, essa postula la ricerca e la sperimentazione come proprio volàno e guarda allo sviluppo, anche professionale, come fine e strumento. Stanno scritti nell'articolato del Regolamento quei dispositivi di organizzazione didattica, di flessibilità virtuosa che permettono di modulare i percorsi secondo criteri di individualizzazione (non di “personalizzazione”, che interviene invece differenziando all'origine gli obiettivi), di articolazione del gruppo-classe inteso come ambiente di apprendimento e non mera unità amministrativoburocratica. Perché tutto questo scenda dall'empireo delle buone intenzioni sul terreno della fattibilità sono necessarie anzitutto risorse professionali e materiali adeguate, in netta controtendenza rispetto alle politiche di tagli lineari e indiscriminati operati dagli Esecutivi precedenti (spesso nel silenzio assordante della cosiddetta società civile...). Anche questa è una riforma “strutturale” che interpella la responsabilità degli attuali decisori politici. L'individuazione dei “contenuti” intercetta necessariamente una questione fondamentale, quella del tempo-scuola. Sull'argomento molto è stato detto, volta a volta per ribadire, chiarire, fraintendere. Nell'economia di questo contributo, basterà partire da un'ovvietà troppo spesso rimossa: non c'è processo educativo, né percorso di insegnamento-apprendimento che non si misuri con la variabile del tempo, che perciò non è mai neutrale. Stiamo parlando di un tempo-scuola inteso come “tempo educativo”, e non come sommatoria di orari giustapposti e frammentati, come è accaduto nei provvedimenti dell'ultimo decennio: il tempo frutto di una proposta organica che strutturi l'esperienza dei ragazzi e delle ragazze in modo che possano costruire cultura, consapevolezza e competenze sociali. Ancora una volta, disegno complessivo, risorse e contenuti si saldano in un'unica visione, come parti di un'unica strategia. L'organico funzionale (altrimenti detto, non a caso, “organico dell'autonomia”) è la tessera che idealmente chiude questo quadro, che non pretende di essere esaustivo, ma si propone di essere paradigmatico. Componendo esigenze gestionali, dispositivi didattici, scelte progettuali, emerge con tutta evidenza che i criteri attuali di determinazione dell'organico, ancorati a parametri puramente numerici e a dati quantitativi, non solo sono obsoleti, pensati per una scuola fordista che non sta più nelle cose, ma diventano fattori moltiplicatori di iniquità e punti di rottura del sistema. Vale la pena, al riguardo, porre qualche questione. Si parla di “organico di rete”: bene, forse è il caso di sgomberare il campo da ambiguità e confusioni. L'organico di rete è funzionale ad una progettualità territoriale che ha un senso: sostiene lo scambio professionale, accompagna le singole istituzioni scolastiche verso una prospettiva meno angusta ed autoreferenziale, le aiuta a pensarsi, appunto, come parti di un sistema educativo e non come protagoniste di competizioni e lotte darwiniane all'interno di un territorio. Ma l'organico di rete, nella prospettiva in cui stiamo ragionando, non può essere l'alternativa secca all'organico funzionale di istituto, che resta invece l'opzione necessaria per il progetto di scuola: in quest'ottica, la certezza e la continuità delle risorse, professionali e materiali, vanno assicurate alla singola istituzione scolastica. Mi avvio alla conclusione, senza aver fatto cenno esplicito nemmeno una volta alla “scuola inclusiva”. Non è un'omissione, ma una scelta intenzionale. Sul principio che la scuola debba essere inclusiva (mi spingerei ad affermare che una scuola non inclusiva è una sorta di contraddizione in termini, oltre che un vulnus costituzionale) siamo tutti d'accordo, se non altro per osservanza delle retoriche politiche. Il punto dirimente è compiere le scelte strategiche, di natura culturale prima ancora che politica, per farlo valere. Partendo da alcune condizioni e priorità come quelle indicate in questo contributo.

 


 

  • Giannini bacchetta i sindacati: basta tutelare solo il minimo garantito a tutti

Parlando a Radio 1, il Ministro dice che è giunta l’ora di valorizzare chi lavora meglio:

La Tecnica della Scuola.it, del 20-03-2014

Parlando a Radio 1, il Ministro dice che è giunta l’ora di valorizzare chi lavora meglio: altrimenti quel poco che c'è, non solo non serve a migliorare la qualità complessiva ma neppure a valorizzare le singole persone. Anche perché gli insegnanti italiani, a differenza dei colleghi europei, non hanno alcuna prospettiva di carriera. Però i diretti interessati spingono per un adeguamento della busta paga almeno al costo della vita. Il responsabile del Miur parla anche di spending review: mi stupirei se ci fossero tagli di risorse già prosciugate negli anni.
Dal ministro dell'Istruzione, Stefania Giannini, continuano ad arrivare segnali di apertura verso gli incentivi stipendiali limitati alla frangia di docenti più meritevoli. Stavolta ne ha parlato a Radio 1, la mattina del 20 marzo, mentre si discuteva degli stipendi degli insegnanti. Il ministro non ha perso l’occasione per bacchettare i rappresentanti dei lavoratori.
"Se si fa la contrattazione e i sindacati spingono solo per salvaguardare il minimo garantito per tutti e non per valorizzare chi lavora meglio – ha tenuto a dire - quel poco che c'è, non solo non serve a migliorare la qualità complessiva ma neppure a valorizzare le singole persone".
Il ministro ha poi aggiunto: "non è solo una questione di meno soldi - ha detto - ma di soldi spesi male. Gli insegnanti italiani, a differenza dei colleghi europei, non hanno alcuna prospettiva di carriera nel senso di differenziazione di funzioni che vengano riconosciute, valutate e premiate". Insomma, sul nuovo contratto la sua posizione è ormai chiarissima. Resta da capire quanta intenzione hanno i sindacati di contrastarla: dalla base, dai lavoratori, infatti ci sono forti spinte per attuare un aumento generalizzato. Soprattutto dopo che nell'ultimo triennio il blocco dei contratti ha determinato il sorpasso dell'inflazione sulle buste paga.
A proposito della eventualità che la scure della spendig review si abbatta anche sul settore dell'istruzione, il responsabile del Miur si è invece vestita quasi da sindacalista del settore. "Mi stupirei se ci fossero tagli di risorse che già sono state prosciugate negli anni", ha detto Giannini. Per poi sottolineare che "se ci fosse una distrazione del genere nell'ambito del governo o di un Consiglio dei Ministri che ha messo questo tema come una bandiera al centro dell'agenda politica, dovrei essere a ricordare che ciò non è coerente con quanto abbiamo detto. Certamente non si fanno miracoli ma - ha concluso - bisogna avere il coraggio di investire, l'ambizione di migliorare il sistema e spendere meglio quello che c'è". Nei prossimi giorni capiremo se il ministro dovrà sgomitare in CdM oppure se il suo dicastero, come è stato più volte indicato dai rappresentanti del Governo Renzi, verrà esentato dai “ritocchi” del piano Cottarelli.

 


 

  • I sindacati a piedi uniti sul Ministro: gli stipendi non si toccano!

No secco dei rappresentanti dei lavoratori all’invito di Giannini di abbandonare la difesa degli aumenti stipendiali a ‘pioggia’. Pantaleo (Flc-Cgil): se vuole premiare pochi e penalizzare tutti gli altri non ci stiamo.

La Tecnica della Scuola.it, del 20-03-2014
No secco dei rappresentanti dei lavoratori all’invito di Giannini di abbandonare la difesa degli aumenti stipendiali a ‘pioggia’. Pantaleo (Flc-Cgil): se vuole premiare pochi e penalizzare tutti gli altri non ci stiamo. Scrima (Cisl): è paradossale che si polemizzi sui contenuti di una contrattazione ancora inesistente. Di Menna (Uil): getti il cuore oltre l'ostacolo e faccia una proposta. Pacifico (Anief): ormai gli insegnanti guadagnano meno degli operai, perché il Ministro non dice che meritano tutti uno stipendio dignitoso?
I sindacati in blocco rispediscono al mittente, il ministro Giannini, gli inviti ad abbandonare la linea della difesa ad oltranza degli aumenti stipendiali a ‘pioggia’.
"Se si fa una contrattazione e se anche le forze sindacali spingono sempre e soltanto per salvaguardare il minimo garantito a tutti e non per valorizzare chi lavora meglio - aveva detto in mattinata il ministro ai microfoni di Radio 1 - quel poco che c'è non solo non serve a migliorare la qualità complessiva ma nemmeno a valorizzare le singole persone". "Non è solo una questione di meno soldi - ha aggiunto - ma anche di soldi spesi male. Gli insegnanti italiani, a differenza dei colleghi europei, non hanno alcuna prospettiva di carriera, non solo nel senso di una progressione, di un avanzamento, ma nel senso di una differenziazione di funzioni (dal coordinamento alla direzione di progetti) che vengano riconosciute, valutate e premiate".
Le dichiarazioni di Giannini hanno determinato, nel corso della giornata, una serie di reazioni indignate da parte dei rappresentanti dei lavoratori.
"Siamo pronti a discutere di valorizzazione professionale dei docenti ma nell'ambito dei rinnovi contrattuali, se invece la Ministra Giannini vuole premiare pochi e penalizzare tutti gli altri troverà la nostra ferma opposizione" replica il segretario generale della Flc-Cgil, Domenico Pantaleo, invitando il Governo a a rinnovare il contratto dei lavoratori pubblici.
"Basta con le polemiche assurde, si rinnovi il contratto" ha commentato il segretario generale della Cisl Scuola, Francesco Scrima, giudicando le parole del ministro "irrispettose non tanto per i sindacati quanto per i lavoratori della scuola, delle cui retribuzioni la ministra è evidentemente all'oscuro". "E' persino paradossale, a dire il vero - ha concluso il leader della Cisl Scuola - che si polemizzi sui contenuti di una contrattazione di cui al momento non si vede nemmeno l'ombra".
Il segretario della Uil Scuola, Massimo Di Menna, il ministro Giannini "evoca una sorta di miracolo di San Gennaro". E spiega perché: "Mentre i Governi Berlusconi, Monti, Letta hanno bloccato i contratti, fermato le retribuzioni e, nel solo 2013, è stato disposto un prelievo di 300 milioni dalle retribuzioni senza destinarli alla valorizzazione professionale, è colpa dei sindacati se non c'è il miracolo". Invita quindi il ministro a "gettare il cuore oltre l'ostacolo", a fare una proposta concreta di valorizzazione e di possibilità di carriera e - assicura - "ci troverà disponibili per un rapido negoziato e anche con la firma pronta".
Esterrefatta la Gilda. "Le esternazioni della Giannini dimostrano che il ministro non conosce affatto la drammatica situazione in cui si trovano gli insegnanti italiani a causa di una politica miope basata su tagli continui e indiscriminati" dichiara il coordinatore nazionale, Rino Di Meglio, aggiungendo di non capire "questi attacchi apodittici al sindacato che il ministro non si è degnato neanche di salutare dopo il suo insediamento a viale Trastevere".
"Gli insegnanti guadagnano meno degli operai, il Ministro dovrebbe saperlo" ricorda Marcello Pacifico, presidente dell'Anief. Che a Giannini non le manda a dire: "le istituzioni e la politica devono garantire uno stipendio dignitoso. Trovando le risorse adeguate: il prossimo rinnovo contrattuale del comparto Scuola diventa quindi il banco di prova per capire se questo Esecutivo è in grado di fornire tale prerogativa. Se il Ministro non lo comprende o non è d'accordo, allora faccia pure un passo indietro".
Il nodo della questione, insomma, è sempre lo stesso: il rinnovo del contratto. E dalle premesse non sarà facile arrivare ad una mediazione. Soprattutto se i fondi a disposizione saranno esigui.

 


 

  • Sindacati contro Giannini: non rispetta gli insegnanti

L’invito radiofonico (Rai 1) rivolto dal ministro Stefania Giannini ai sindacati a smettere di “salvaguardare il minimo garantito per tutti” e a valorizzare invece “chi lavora meglio” ha suscitato un coro di proteste da tutte le organizzazioni dei lavoratori della scuola, confederali e autonome.

Tuttoscuola.it, del 21-03-2014

L’invito radiofonico (Rai 1) rivolto dal ministro Stefania Giannini ai sindacati a smettere di “salvaguardare il minimo  garantito per tutti” e a valorizzare invece “chi lavora meglio” ha suscitato un coro di proteste da tutte le organizzazioni dei lavoratori della scuola, confederali e autonome.
Per Francesco Scrima, segretario della Cisl Scuola, le parole del ministro “suonano irrispettose non tanto per i sindacati, quanto per i lavoratori della scuola, delle cui retribuzioni la ministra è evidentemente all’oscuro. Forse non sa quanto guadagna una categoria che mediamente sta sotto lo stipendio con cui, a detta del premier, si fa fatica a vivere. Conosce poco anche come si fa un contratto, la ministra Giannini. La invitiamo a riflettere sul fatto che la contrattazione avviene sulle risorse che il governo rende disponibili: se queste bastano appena a soddisfare 'il minimo garantito', come lei sprezzantemente lo definisce, non è certo colpa dei sindacati”.
Anche  Mimmo Pantaleo, segretario della Flc-Cgil, sottolinea che “dal 2006 non è stato più firmato alcun contratto che garantisca le risorse necessarie per un adeguato recupero salariale e che migliori la qualità formativa attraverso la contrattazione decentrata”.
Il sindacalista si dichiara “pronto a discutere di valorizzazione professionale dei docenti ma nell’ambito dei rinnovi contrattuali. Il Governo s’impegni perciò a rinnovare il contratto dei lavoratori pubblici. Se invece la ministra Giannini vuole premiare pochi e penalizzare tutti gli altri troverà la nostra ferma opposizione. Argomenti complessi come retribuzioni e carriere necessitano di una discussione seria con le organizzazioni sindacali e non essere affidati a interviste”.

 


 

  • «Cambiamo la scuola rompendo un tabù: puniamo gli insegnanti incapaci»

«Dare ai meritevoli, ma sanzionare quelli che non garantiscono un livello minimo di qualità», dice il ministro dell'Istruzione. A chi spetta decidere? «Chi dirige un istituto dovrebbe avere questa responsabilità»

Corriere della sera.it, del 21-03-2014, intervista di Vittorio Zincone

A trentuno anni era professore associato. A trentotto ordinario. Stefania Giannini, leader di Scelta civica ed ex rettore dell'Università per stranieri di Perugia, è il nuovo ministro dell'Istruzione, Università e Ricerca.
La incontro in viale Trastevere, nella sede storica del dicastero: stanze gigantesche, arredi ottocenteschi, corridoi vuoti. È glottologa. Le mostro il video di Sara Maria Forsberg, la ragazza finlandese che ha spopolato su Youtube imitando 12 lingue inventandosi le parole. Commenta (renzianamente?): «La vita è ritmo». Provo a prenderla in contropiede: «Ha visto il film Smetto quando voglio? Quello con i ricercatori universitari sfigatissimi che si mettono a spacciare una droga sintetica inventata da loro?». Risponde ridendo: «Certo. Ho pure trovato un piccolo errore: uno dei protagonisti attribuisce alla lingua srilankese una derivazione inesistente dal sanscrito».
Liberale orgogliosa, Giannini si dà come obiettivo da ministro di portare "semplificazione e responsabilità". A un certo punto, mentre racconta delle capriole necessarie per portare a termine la nomina di 36o dirigenti scolastici a causa dei possibili ricorsi al Tar, azzarda: «Se dobbiamo lavorare con la spada di Damocle delle sentenze dei giudici, sarà difficile migliorare i servizi scolastici. Ma non mi faccia dire queste cose, che poi mi licenziano».
Appena le ricordo le polemiche causate dal suo esordio con la visita a una scuola paritaria cattolica, replica thatcherianamente: «Lo Stato deve garantire la qualità dell'istruzione, ma ogni famiglia deve avere la possibilità di scegliere». E quando definisco "inciampo" l'intervista in cui disse che andava superato il meccanismo degli scatti di anzianità e che ha causato una reazione indignata dei sindacati, dice: «Per me non è stato un inciampo».
Ministro, perseverare è diabolico. «Ribadisco con forza: solo in un sistema statico come il nostro l'anzianità è l'unico modo per valorizzare la figura dell'insegnante con un aumento dello stipendio». L'alternativa? «Premiare i più capaci, disponibili e preparati. I dirigenti scolastici dovrebbero avere l'autonomia per farlo e si dovrebbero assumere la responsabilità delle loro scelte. Un insegnante può essere premiato con un aumento dello stipendio, ma anche con il ruolo di coordinamento di un'area didattica».
Perché non si è mai andati in questa direzione? «I sindacati hanno sempre preteso di tutelare tutta la categoria: non si valorizza chi ha più merito, ma si dà a tutti una garanzia minima. Tanti iscritti garantiti allo stesso modo vogliono dire più potere del sindacato. I tempi sono maturi per cambiare».
Renzi ha detto che questo governo ascolterà tutti, ma poi andrà dritto per la sua strada. «Esatto. E il sindacato potrebbe rinnovare se stesso, diventando il garante e il custode della qualità del servizio degli insegnanti».
Oltre ai premi anche le punizioni? «So dove vuole arrivare. Da una parte i più meritevoli promossi con un premio di produttività...». Un premio di produttività? «...se può trovi un'altra espressione dato che questa non è molto amata. Dall'altra si dovrebbe infrangere un tabù...».
E punire gli insegnanti incapaci? «Anche con sanzioni, se non viene garantito un livello minimo di qualità».
E chi decide se viene garantito questo livello minimo? Gli studenti? I loro genitori? «No. Non si può mettere la carriera di un insegnante nelle mani di dieci genitori che si lamentano. Chi dirige un istituto e deve rendere conto della qualità dei servizi si dovrebbe prendere anche questa responsabilità. Gli strumenti per procedere ci sono già, ma è sempre mancata la volontà politica. Basterebbe seguire l'esempio delle università».
Le università italiane non sono esattamente un esempio di limpida meritocrazia: fioccano i concorsi truccati, con accordi tra professori per premiare ricercatori segnalati... «Possiamo evitare di usare la parola concorso? È un termine che non è nemmeno traducibile. Concorso? Parliamo di selezione: credo che una selezione corretta permetta sempre a chi lo merita di essere premiato».
I concorsi sono fatti apposta. «Già. Ma secondo lei, se un professore vuole promuovere un asino, ci riesce meglio attraverso una complicata, ma manovrabile, procedura concorsuale o mettendoci la faccia?».
Si dia una risposta. «Con il concorso».
Vuole abolire i concorsi? «Non ho detto questo. Ma penso che non sia un delitto voler promuovere un proprio allievo. L'importante è metterci la faccia e prendersi la responsabilità didattica delle proprie scelte. Questa responsabilità ha dei costi di reputazione che incidono sulla sopravvivenza e la sostenibilità di un ateneo».
Lei è favorevole al finanziamento delle università pubbliche da parte dei privati? «Sono favorevole a un'integrazione tra mondo del lavoro e mondo della formazione. Mi piacerebbe un sostegno degli imprenditori anche per il settore umanistico. E sì, penso che non sia un problema se un mecenate si offre di sponsorizzare una cattedra. Ma so che ci sarebbero molte resistenze».
Si temono ingerenze: la ricerca pubblica messa troppo al servizio dei privati... «C'è un'interpretazione inadeguata del concetto di pubblico. Pubblico in Italia vuol dire gestito dallo Stato». E invece... «Invece dovrebbe voler dire al servizio della comunità. Lo Stato deve garantire, vigilando, che chiunque gestisca un determinato servizio pubblico lo faccia in favore della comunità. Pro populo. Questo è il modello liberale. Ma in Italia c'è ancora molto da fare».
Lei che studi ha fatto? «Elementari e medie a Lucca. Università a Pisa. Dottorato a Pavia. Sono stata la prima a ottenere una laurea in famiglia. Mio padre aveva un bar pizzeria, ereditato da suo padre».
Era adolescente negli Anni Settanta. Ha mai fatto politica? «No. Ma ero impegnata con un gruppo di volontariato cattolico».
È molto religiosa? «In realtà non ho il dono della fede. Ma sono cresciuta con quei valori, nella Lucca bianca. I miei due figli, Enrico ed Edoardo, sono battezzati».
Hanno frequentato scuole cattoliche? «Uno sì e l'altro no. Ora sono al Politecnico di Milano».
Favorevole o contraria ai matrimoni gay? «Sono per i diritti delle coppie omosessuali».
Farete una legge sulle coppie gay? «Non credo che sia nelle priorità di questa legislatura. Con questa maggioranza...».
Chi l'ha coinvolta in politica? «Luca Cordero di Montezemolo. Nel mio mi chiamò per collaborare con ItaliaFutura per disegnare un'idea diversa di università».
Dopo soli tre anni è senatrice, ministro e segretaria di Scelta civica. «È l'ultima cosa che avrei immaginato».
Scelta civica a Palazzo Madama ha otto senatori. Sono determinanti per la sopravvivenza del governo Renzi. Lei ha un notevole potere contrattuale. «L'ho detto in Aula: voglio far cambiare verso al mondo dell'Istruzione. Non sarò un ministro che insegue Padoan per raccogliere qualche briciola».
A cena col nemico? «Con Susanna Camusso. Ma non mi piace definirla nemico».
L'errore più grande che ha fatto? «Forse non trasferirmi negli Usa, a metà degli Anni Ottanta».
La scelta che le ha cambiato la vita? «Scegliere l'Università di Perugia. Dopo il dottorato sarei potuta andare anche a Siena o a Roma Tre».
Che cosa guarda in tv? «Le news, qualche talkshow e i film».
Il film preferito? «Match Point di Woody Allen. Un film geniale».
La canzone? «Canale in the wind di Elton John. Drammatica. La colonna sonora della mia adolescenza, invece, era di Jackson Browne. Ricorda? Stay... just a little bit longer...».
Il libro? «Domani nella battaglia pensa a me di Javier Marías. Eros e Thanatos».
Il libro che darebbe a uno studente di dieci anni? «Pinocchio. Dentro c'è davvero tutto».
Conosce i confini della Siria? «Libano, Giordania...».
Quanto costa un pacco di pasta? «Circa un euro».
Conosce l'articolo 139 della Costituzione? «Conosco il 138».
Il 139 dice che la forma repubblicana non è modificabile. Quale parola inserirebbe nella Costituzione? «Felicità. Come in quella degli Stati Uniti».

 


 

  • Scoppia la guerra del sapere

Si accende il dibattito sull’impoverimento degli studi letterari e filosofici e, allo stesso tempo, prende corpo l’ipotesi di una campagna antiscientifica. Ma il pensiero critico ha bisogno di difendere una visione umanistica

Il Messaggero, del 16-03-2014, di Giorgio Israel

CASO
Cresce l’allarme per lo svilimento degli studi filosofici, storici e letterari: alcuni corsi di laurea hanno eliminato filosofia dalle tabelle e cresce la pressione a ridurre la durata dei licei a quattro anni. Roberto Esposito e Dario Antiseri hanno accusato l’“ignoranza attiva” di voler cancellare il pensiero critico dall’istruzione. Ma secondo altri, in Italia, è la cultura scientifica a essere nell’angolo; e la carenza di laureati in materie scientifiche sarebbe dovuta a una campagna antiscientifica che proscrive ciò che è misurabile, quantitativo e utile. Giovanni Reale ha replicato criticando l’idea che il sapere derivi tutto dalla scienza e che la tecnologia risolva ogni problema. Appare incancrenito il conflitto tra le “due culture”, divise da una barriera che lascia come unica possibilità la definizione dei rispettivi spazi di influenza.
In realtà, le scienze “esatte” che hanno creato la tecnologia non si basano sull’idea di essere l’unica fonte di conoscenza. La contrapposizione tra scienza e filosofia (tra scienze “esatte” e il “resto”) è artificiosa. È legittimo, invece, paventare che l’indirizzo attuale della ricerca scientifica dissolva la funzione conoscitiva della scienza, privilegiando una prassi puramente manipolativa. Ma si tratterebbe di qualcosa di molto più grave dell’attacco alla filosofia: sarebbe un attacco alla conoscenza, vista come un inutile orpello di cui la tecnologia può fare a meno. È possibile che il crescente protagonismo della “tecnoscienza” stia dissolvendo la scienza che conosciamo da qualche secolo. Ma quali sarebbero le conseguenze? In realtà, gli immensi progressi della tecnologia sono prodotto di concetti teorici: l’esempio più evidente è dato dall’oggetto tecnologico che più di ogni altro ha cambiato il mondo, il computer digitale, prodotto di modelli teorici (la macchina di Turing e l’architettura di von Neumann). Quindi, la storia suggerisce che un approccio manipolativo possa condurre al declino di una tecnologia priva di linfa teorica. È un tema cruciale che investe sia le prospettive della società tecnoscientifica che il ruolo della conoscenza: la posta in gioco va oltre la definizione per la filosofia di uno spazio da riserva indiana, in cui potrebbe finire anche la scienza e ogni attività conoscitiva.
L’OSSERVAZIONE
Una pessima divulgazione accredita l’idea secondo cui Galileo avrebbe fondato la scienza moderna sull’osservazione empirica. È proprio il contrario: Galileo parte da ipotesi matematiche e le confronta con la realtà costruendo esperimenti, “cimenti”, con cui interroga la natura. Chi confonde il metodo sperimentale con l’empirismo non ha capito nulla della scienza moderna. Si cita spesso la famosa frase di Galileo secondo cui l’essenza del mondo «è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (e dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, a conoscer i caratteri ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica … senza cui è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto». Su questa “matematica purissima” Galileo ha costruito la sua fisica. Ma “il mondo è matematico” è un’asserzione metafisica, è un’ipotesi indimostrabile che deve confrontarsi perpetuamente con i fatti e la cui sopravvivenza dipende dal suo successo. I trionfi della fisica hanno dato ossigeno all’ipotesi che “il mondo è matematico”, ma l’estensione del concetto di “mondo” al di là della sfera naturale è stato come scendere nelle sabbie mobili: i modesti risultati conseguiti nel campo dei fenomeni biologici, economici, sociali non hanno certo convalidato l’ipotesi che (tutto) il mondo è matematico.
IL TEORICO
Tuttavia, quell’ipotesi è stata il fondamento della scienza moderna, come ha spiegato il grande storico della scienza Alexandre Koyré: «Una scienza di tipo aristotelico, che parte dal senso comune e si basa sulla percezione sensibile, non ha bisogno di appoggiarsi a una metafisica. Essa vi conduce, non parte da questa. Una scienza di tipo cartesiano, che postula il valore reale del matematismo, che costruisce una fisica geometrica, non può fare a meno di una metafisica. E anzi, non può far altro che cominciare da essa. L’abbiamo dimenticato. La nostra scienza va avanti senza occuparsi molto dei suoi fondamenti. Il suo successo le basta fino al giorno in cui una “crisi” – una “crisi dei principi” - le rivela che le manca qualcosa, cioè capire ciò che fa». È una descrizione tanto chiara che non vi sarebbe nulla da aggiungere circa i rapporti tra scienza e filosofia: l’architrave della scienza moderna è una metafisica ed è illusorio affrontare le crisi senza occuparsi dei fondamenti.
SERVONO VITAMINE
I veri scienziati hanno sempre difeso il primato della teoria. Leonardo da Vinci ammoniva che «quelli che s’innamoran di pratica senza scienza son come ‘l nocchier ch'entra in navilio senza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada. Studia prima la scienza, e poi seguita la pratica, nata da essa scienza». Roba “vecchia”? Leggiamo allora il fulminante aforisma di uno scienziato contemporaneo (che ha dato una cosa tanto concreta come la vitamina C), Albert Szent-Gyorgy: «Lo scoprire consiste nel vedere ciò che tutti hanno visto e nel pensare ciò che nessuno ha pensato». Senza il pensiero teorico l’osservazione empirica è cieca. E François Jacob, uno dei padri della biologia molecolare, dopo aver ridicolizzato il concetto di “quoziente intellettivo”, scriveva: «Come se la cosa più importante nella scienza fosse misurare! Come se, nel dialogo tra la teoria e l’esperienza, la parola fosse in primo luogo ai fatti! Una simile credenza è semplicemente falsa. Nel procedere scientifico è sempre la teoria ad avere la prima parola. I dati sperimentali non possono essere acquisiti, non assumono significato, altro che in funzione di questa teoria».
EMPIRISMO
Proprio gli scienziati cui dobbiamo la tecnologia che ha cambiato il mondo – computer digitale, biologia molecolare, genetica — sapevano che scienza ed empirismo sono agli antipodi e che poggiare la formazione scientifica, anche a livello scolastico, sul secondo è un errore madornale. Ogni scuola deve possedere un laboratorio di scienze, ma perché serva a qualcosa occorre entrarvi per confrontare con l’esperimento conoscenze teoriche apprese. È un apparente paradosso che la necessità strategica del pensiero teorico sia chiara soprattutto a chi lavora in ambito tecnologico, come gli ingegneri, che ben sanno che un’avanzata, per esempio nella progettazione di nuovi sistemi di trasporto, richiede un ripensamento teorico. La storia da torto a chi crede che la tecnologia possa essere più innovativa se libera dell’“impaccio” del lento procedere della ricerca di base.
Una scienza capace di ripensare continuamente i propri fondamenti teorici ha assoluto bisogno di pensiero filosofico. Ha ragione Roberto Esposito quando dice che abolendo la filosofia si abolisce il pensiero critico. Vado oltre: colpendo così il pensiero critico si colpisce la democrazia. Ma garantire alla filosofia uno spazio da riserva indiana non garantisce la sopravvivenza dello spirito critico. Occorre anche difendere la scienza come progetto di conoscenza. Questo è un dovere primario, senza divisioni in zone d’influenza; ed è l’unico modo per difendere una visione umanistica senza cui le nostre società non hanno futuro.

 


 

  • Camusso (Cgil): “Innalzare l’obbligo scolastico”

La segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso, al congresso degli studenti medi a Perugia ha sostenuto che bisogna aumentare l’obbligo scolastico: questa è la vera riforma della scuola. Interventi organici sull’istruzione

La Tecnica della Scuola.it, del 17-03-2014, di P.A.

Al terzo congresso nazionale della Rete degli studenti medi a Perugia, la segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso, ha ripreso la vecchia questione dell’aumento dell’obbligo scolastico: “L’obbligo scolastico va innalzato per diventare il punto di partenza dell’istruzione come grande vettore di sviluppo”. “Questa è la vera grande riforma che la Cgil sostiene nel suo piano di lavoro”.
“Noi siamo tra i paesi cosiddetti sviluppati, ma siamo uno dei pochi paesi che continua ad avere nei fatti l’obbligo a 15 anni, visto che a 15 anni è l’ingresso al lavoro anche se la teorica affermazione del diritto allo studio è quella dei 16”. E poi ha detto ancora : “Noi oggi abbiamo un obbligo scolastico che sta a metà di un ciclo di istruzione, è come dire faccio una norma per garantirne l’evasione, perché non ha avuto invece ovviamente l’effetto di allungare un obbligo generalizzato fino alla fine del ciclo scolastico”. “Intervenire sull’istruzione”, ha poi sottolineato Camusso, “non per fare un’ennesima riforma un po’ confusa affrontando un pezzetto, poi un altro, in un’idea che l’investimento sullo studio non è la risorsa fondamentale. Bisognerebbe fare un intervento organico”.
E visto che c’era e la platea rappresentava una occasione importante per esprimere il suo pensiero, la segretaria si è pure intrattenuta sui progetti del presidente del Consiglio Renzi relativi alla scuola e all’edilizia: “Dire che si fa uno stanziamento consistente, intervenire rispetto all’edilizia scolastica e rimettere in sicurezza le scuole è un’esigenza che abbiamo manifestato in tantissime occasioni, è una scelta assolutamente importante, però non può essere l’unica risorsa che si spende per la scuola in questa stagione”.
“A fianco noi stiamo ancora aspettando che si rimettano le risorse che le tante leggi precedenti hanno tolto. Giustamente gli insegnanti rivendicano i loro contratti e le loro retribuzioni, ma se li paghi con le risorse dei fondi scolastici vuol dire che nella scuola non fai progetti formativi e non vai oltre”. 

 


 

  • Meno istruzione meno Pil: è crisi capitale umano

NELL’ULTIMO DECENNIO I DIPLOMATI SONO CALATI DEL 6% E IL PIL È FERMO SOTTO IL 3%. UN CASO?

l'Unità, del 17-03-2014, di Carlo Buttaroni - Presidente Tecnè

In Italia,negli ultimi cinquant’anni,la crescita dei livelli di scolarizzazione e l’andamento del Pil sono andati di pari passo. Negli anni Sessanta, i diplomati nelle scuole secondarie superiori sono cresciuti del 105% rispetto al decennio precedente, con una crescita del Pil del 56%. Negli anni Settanta, il numero di diplomati è cresciuto del 91% e il Pil del 45%. Tendenza positiva proseguita fino al 2000, anno in cui è iniziata un’inversione di tendenza che ha visto, nella decade 2000-2010, un calo del numero deidiplomatidel6% rispetto al decennio precedente e il Pil fermo sotto il 3%. Un caso? Non proprio. L’istruzione, nelle economie avanzate, è il più importante fattore di crescita. Proprio come per gli investimenti in «capitale fisico», un Paese investe in istruzione e formazione per migliorare il proprio «capitale umano» sostenendo dei costi che in futuro si trasformano in maggiori guadagni. Se si analizza la capacità di creare valore aggiunto, cioè l'incremento di valore che si verifica nell' ambito dei processi produttivi a partire dalle risorse iniziali, ci si rende conto che l’elemento della «competenza» è fondamentale, perché si traduce in migliore qualità dei beni e servizi, insieme da performance produttive più alte. I differenziali di conoscenza incidono sulla competitività più dei costi di produzione che, seppur rilevanti, hanno una valenza che si misura soprattutto nel breve termine, mentre il miglioramento degli standard produttivi, ottenuti attraverso l’aumento delle conoscenze e delle competenze, migliora la competitività nel lungo periodo. Il livello di capitale umano, dunque, è un fattore decisivo per la crescita economica di qualunque Paese. Ed è anche un fattore attrattivo degli investimenti esteri, diventati, in questi ultimi anni, la principale leva di finanziamento dello sviluppo. Agli inizi degli anni ’70, i paradigmi della finanza sono cambiati radicalmente con la scelta del governo USA di sospendere la convertibilità in oro del dollaro. Una decisione che ha azzerato gli accordi di Bretton Woods del 1944 che limitavano la circolazione dei capitali. Da quel momento, enormi quantità di ricchezza sono uscite dai radar dei governi nazionali e hanno iniziato a muoversi a livello globale. Oggi,per esempio,le grandi centrali finanziarie mondiali possono scegliere se sostenere il debito pubblico di un Paese e questa decisione, al netto delle speculazioni, dipende dalla capacità di trasformare il debito in crescita. Una scelta che avviene tenendo in considerazione, come variabile fondamentale, il potenziale produttivo di un Paese e la sua capacità di generare valore aggiunto. I grandi fondi di private equity mondiali, che raccolgono risorse in tutto il mondo e hanno portafogli d’investimento di centinaia di miliardi di dollari, finanziano imprese che operano nel campo della meccanica di precisione, del chimico, del farmaceutico, dell’high-tech, in base a parametri dove il «capitale umano» non conta meno del costo del lavoro. Un elevato livello di capitale umano, alimentato da una costante crescita delle conoscenze e delle competenze, rappresenta, infatti, il presupposto di miglioramenti continui degli standard produttivi e nella capacità di creare valore. Oltretutto, attraverso il movimento internazionale dei capitali, è possibile incrementare il trasferimento di nuove conoscenze e tecnologie ottenendo un progressivo avanzamento della frontiera della produzione. Investire in conoscenza, quindi, conviene all’intera economia di una nazione. A livello globale, gli investimenti in conoscenza vedono in prima fila le economie emergenti, che stanno scalando le classifiche mondiali non solo in termini di Pil ma anche di livelli d’istruzione e qualità delle università. L’Italia, invece, sta perdendo questa sfida sul futuro, non solo a livello mondiale ma anche all’interno dell’Europa. I dati sul livello del capitale umano delle persone occupate nel nostro Paese misurato ad esempio attraverso il livello d’istruzione degli occupati non sono confortanti, soprattutto se confrontati con quelli della media europea. E ancor più sconfortanti sono quegli indicatori che la Ue utilizza come obiettivo strategico per il 2020. Nell'Europa dei 27 l'Italia è terza per quanto riguardala quota dei NEET, i giovani che non lavorano, non studiano e non sono impegnati in percorsi formativi. Un primato negativo che ci vede preceduti solo da Grecia e Bulgaria. Un paese, il nostro, a fondo scala per quanto riguarda la classifica sull' istruzione universitaria, nel gruppo di testa per l'abbandono scolastico e al 16° posto in merito alle competenze matematiche dei nostri studenti. La Strategia di Lisbona  aveva posto,tra i cinque obiettivi da raggiungere entro il 2010, la riduzione al 10 per cento della quota di giovani che lasciano la scuola senza un adeguato titolo di studio, e il piano «Europa2020» ha posto il tetto di almeno il40 per cento di giovani che ottiene un titolo di studio universitario. L’Italia ha fallito il primo obiettivo ed è assai lontana dal raggiungere il secondo. Una condizione che  non stupisce, perché l'Italia è nella parte bassa della classifica anche per quanto riguarda la spesa pubblica per l'istruzione e la formazione, ben al di sotto la media europea. E gli esempi non mancano: la Danimarca, per citarne uno, investe una quota pari al 7,8% del PIL, contro il 4,2% dell’Italia. Un’impostazione, la nostra, che nel medio/lungo periodo porterà a un minore tasso di sviluppo dell’Italia anche rispetto ai propri partner europei, con un conseguente deterioramento dei processi produttivi. L’Italia, quindi, se non cambia strada,si andrà ad attestare su livelli di competitività più arretrati rispetto agli altri Paesi dell’Unione Europea, con conseguenze inevitabilmente negative sui tassi di crescita economici. Nelson Mandela ricordava spesso che «L’istruzione e la formazione sono le armi più potenti che si possono utilizzare per cambiare il mondo» e,sicuramente, sono l’unico strumento per non scivolare verso un futuro assai meno glorioso del nostro passato. Senza istruzione manca la conoscenza di base necessaria per il progresso tecnico e scientifico, ma anche per quello umano, senza il quale ogni forma di progresso rischia di rimanere sterile e priva di frutti.

 


 

  • Docenti e Ata, per superare l’emergenza stipendiale non resta che rinnovare il contratto

L’ipotesi di aumento di 80-85 euro annunciata da Renzi fa tornare in auge la pochezza delle buste paga del personale scolastico, tra le più basse d’Europa

La Tecnica della Scuola.it, del 17-03-2014, di Alessandro Giuliani

L’ipotesi di aumento di 80-85 euro annunciata da Renzi fa tornare in auge la pochezza delle buste paga del personale scolastico, tra le più basse d’Europa. Per la Cisl il governo su questo punto si gioca la credibilità degli impegni assunti. La Cgil avverte: se si vogliono continuare a pagare gli aumenti con le risorse dei fondi scolastici non si va lontano. E l’Anief chiede perché aumentano solo gli stipendi dei privati.
La questione stipendiale del personale scolastico continua a tenere banco. Dopo il probabile scampato pericolo sugli scatti, se ne è tornato a parlare negli ultimi giorni. L’occasione sono state le parole del premier, Matteo Renzi, sugli stipendi mensili da 1.500 euro, “con cui si fa fatica a vivere”. Così a quelli della scuola, uno dei comparti a cui il nuovo governo ha detto di tenere in modo particolare, lo stesso Renzi ha detto di voler applicare, già da maggio, una tassazione ridotta. Facendo innalzare la busta paga di 80-85 euro netti.
I sindacati hanno preso la ‘palla al balzo’: hanno ricordato, ad esempio, che quelli italiani sono gli insegnanti sono gli insegnanti tra i meno pagati d'Europa. Con un gap a fine carriera che sfiora i 10mila euro l’anno di media. Ma non solo.
I numeri, del resto, parlano chiaro: “in un comparto che impiega 935.000 addetti più della metà (500.000 circa) riceve retribuzioni con cui “
si fa fatica a vivere” – ha scritto la Cisl Scuola - e il quadro avrebbe tinte ancora più fosche se prendessimo in considerazione gli stipendi delle scuole paritarie e della formazione professionale”. Per il sindacato guidato da Francesco Scrima, quindi, “quella salariale è un’emergenza a cui dare immediata risposta, sapendo che passa anche da questo la credibilità degli impegni assunti (dal governo Renzi n.d.r.) rispetto alla centralità della scuola e alla dignità del lavoro che vi si svolge”. Il governo, insomma, è avvisato.
Anche la Cgil non fa sconti. Dicendo che 
non bastano i fondi per l’edilizia scolastica: l’istruzione pubblica va sostenuta a e rilanciata a 360 gradi. È il pensiero espresso domenica 16 marzo dal segretario generale della grande sindacato Confederale, Susanna Camusso.
"Dire che si fa uno stanziamento consistente, intervenire rispetto all'edilizia scolastica e rimettere in sicurezza le scuole è un'esigenza che abbiamo manifestato in tantissime occasioni, è una scelta assolutamente importante – ha detto Camusso - , però non può essere l'unica risorsa che si spende per la scuola in questa stagione".
"A fianco - ha continuato il segretario generale della Cgil - noi stiamo ancora aspettando che si rimettano le risorse che le tante leggi precedenti hanno tolto". E il pensiero va agli stipendi degli insegnanti. Che non possono essere “rimpinguati” solo defiscalizzando quelli inferiori ai 1.500 euro. Bisogna mettere mano al contratto, il prima possibile. "Giustamente - ha concluso Camusso - gli insegnanti rivendicano i loro contratti e le loro retribuzioni, ma se li paghi con le risorse dei fondi scolastici vuol dire che nella scuola non fai progetti formativi e non vai oltre".
Forti pressioni arrivano anche dall’Anief: per il sindacato autonomo, il personale della scuola ha “bisogno di sbloccare il contratto di lavoro e di risorse vere: l’aumento di 80 euro per coloro che ne guadagnano meno di 1.500 al mese, annunciato dal premier Renzi, rappresenta poco più di un ‘obolo’, visto che tra i paesi moderni europei i nostri docenti continuano ad avere lo stipendio più basso dopo la Grecia. Perché mentre si fanno passare questi aumenti come motivo di attenzione per il settore, nel frattempo l’
Istat dice che l’ultimo indice generale delle retribuzioni contrattuali orarie disponibile registra incrementi tendenziali sopra la media nel settore privato (+1,9%) e, in particolare nei settori dell’agricoltura (+3,4%), dell’industria (+2,1%) e dei servizi privati (+1,6%). Mentre in tutti i comparti della pubblica amministrazione (dirigenti e non dirigenti, contrattualizzati e non), si continuano a registrare variazioni nulle”.
“Le modifiche attuate sui contratti del personale statale, in particolare quello scolastico, nell’ultimo ventennio – spiega Marcello Pacifico, presidente Anief – hanno determinato un paradosso: per mere ragioni di finanza pubblica, si sono ereditate le condizioni di lavoro del settore privato, con le nuove norme privatistiche che hanno cambiato l’organizzazione e il funzionamento della macchina amministrativa statale e dei dipendenti, anche in deroga a precise scelte negoziali e diritti non comprimibili. Ma nello stesso periodo gli stipendi sono stati sempre più depauperati. Sino ad essere superati dall’inflazione, 
come è accaduto nel 2013”.

 


 

  • Torna il bonus maturità. Il neoministro: è più giusto. Giannini: ogni scuola selezioni i suoi professori

Sì al bonus maturità e alla riforma della scuola media, ni alla tecnologia e al ciclo breve di studi, no ai concorsoni.

Corriere della sera, del 25-02-2014, di Valentina Santarpia

Sì al bonus maturità e alla riforma della scuola media, ni alla tecnologia e al ciclo breve di studi, no ai concorsoni. È arrivata a viale Trastevere da qualche ora, ma il ministro all’Istruzione, Stefania Giannini, ha già un’idea precisa della scuola che verrà. Anche sfidando a viso aperto gli errori del passato, come il famigerato bonus maturità, introdotto dal ministro Francesco Profumo sotto il governo Monti e poi cancellato dal nuovo titolare del dicastero, Maria Chiara Carrozza, il giorno stesso in cui circa 100 mila studenti partecipavano ai test di accesso per 10 mila posti nella facoltà di Medicina: «Non era il bonus maturità in sé, ma il fatto di aver cambiato le regole in corso, ad aver scatenato il putiferio. Che la carriera scolastica conti per me è importante, lo studente non deve andare all’università vergine, ignorando tutto quello che ha fatto prima: il voto di maturità non è altro che la sintesi che uno ha fatto nei precedenti anni di carriera scolastica, quindi deve esserci, bisogna valutarlo insieme a tutte le altre cose che gli vengono richieste nell’esame di selezione». Per quest’anno, difficilmente rivedremo il bonus in azione, visto che il bando per i test di accesso alle facoltà a numero chiuso, previsti per aprile, è ormai già stato pubblicato. Ma qualcosa potrebbe cambiare dall’anno prossimo, governo permettendo.
Cambio di corsa, quindi? Sembra proprio di sì. Anche la sperimentazione del ciclo breve (4 anni anziché cinque) che la Carrozza aveva lanciato in cinque licei e che contava di estendere a tutte le scuole superiori, lascia piuttosto tiepidina il nuovo ministro. «Non sono contraria a continuare la sperimentazione ma non sono un’entusiasta sostenitrice dell’idea che eliminare un anno alle scuole superiori sia la carta vincente. Piuttosto, penso che abbiamo tre cicli di scuola, due funzionano molto bene, uno, quello intermedio, molto meno. La scuola media inferiore è quella che ha bisogno di maggiore attenzione», sottolinea Giannini. Prefigurando così una riforma del ciclo intermedio, pardon , una rivisitazione, visto che la parola «riforma» le evoca «grandi e lunghi processi» che si attirano critiche e polemiche.
Ma questo non significa che i progetti non siano ambiziosi: da brava riformista, l’ex segretario di Scelta civica boccia anche i concorsoni alla Profumo: «Così come sono stati fatti hanno creato più problemi che soluzioni — sostiene — tra ricorsi, procedure sbagliate, riformulazioni». E come si reclutano allora, gli insegnanti? «Le scuole, come strutture pubbliche che devono rendere conto delle scelte che fanno, possono prendere delle decisioni e assumere chi credono, e poi in base a queste scelte essere valutate: dobbiamo trovare gli strumenti giusti per attuarlo». E i 120 mila precari che pure la Commissione europea ci ha rimproverato? «È una situazione drammatica — dice Giannini —. La conosco bene perché ho amici cinquantenni ancora in attesa di supplenze. Ma si può curare il male antico introducendo sistemi per non rigenerarlo».
Una vera rivoluzione, dunque, quella che immagina il nuovo ministro, in cui gli istituti scolastici hanno sempre più autonomia, la valutazione acquisisce un valore importantissimo — «l’Invalsi ha pregi e difetti ma va sviluppato e migliorato» — e la tecnologia invece sbiadisce: «È una priorità non sostitutiva», spiega e, a costo di sembrare datata, ammette: «Ho l’idea che se spariscono i libri non va bene, deve esserci anche un contatto con la dimensione cartacea della cultura».
Che le gatte da pelare che la aspettano al varco siano tante lo sa bene: è ancora fresco il ricordo del prelievo dei 150 euro in busta paga degli insegnanti, scongiurato in zona Cesarini da Carrozza e Saccomanni, che non si erano parlati sull’argomento. «Chiamerò spesso Padoan e parleremo di tutto in Consiglio dei ministri, che sarà il luogo dell’integrazione: bisogna evitare che i ministri restino nel loro isolamento», assicura. Con la speranza che la nuova tegola in arrivo non faccia male: a marzo dovrebbe partire il prelievo sullo stipendio degli Ata (i collaboratori scolastici) per compensi dati erroneamente, secondo il ministero dell’Economia.
«Sono appena arrivata, so del problema e lo affronterò. Datemi tempo, ho tante idee e buona  volontà, ma non tutte le soluzioni».

 


 

  • Bordate dei sindacati contro Giannini: lo stop agli scatti è fuori dalla realtà

In un Paese in cui un insegnante guadagna mediamente 1.200-1.300 euro al mese, uno stipendio che si colloca al penultimo posto in Europa, parlare di blocco degli automatismi significa ''non tenere conto della realtà''

La Tecnica della Scuola.it, del 25-02-2014, di P.A.

Ma significa anche non tenere conto del fatto che l'anzianità è l'unico modo per difendere il potere d'acquisto dei salari e che per premiare davvero il merito occorrono risorse.
I sindacati replicano così al neo ministro dell'Istruzione Stefania Giannini che in un'intervista ha auspicato che si possa superare per gli stipendi degli insegnanti il meccanismo degli scatti automatici.
''Queste idee meritocratiche, queste vecchie impostazioni di stampo gelminiano non tengono conto della realtà, ovvero che il contratto nazionale della scuola è bloccato dal 2006 e che gli stipendi degli insegnati italiani sono tra i più bassi d'Europa'', commenta il segretario generale della Flc Cgil Domenico Pantaleo.
Il sindacalista evidenzia poi che ''in tutta Europa l'anzianità contribuisce alla valorizzazione della professionalità. Quindi c'è tutta la nostra disponibilità a discutere ma si deve aprire un tavolo perché in questi anni con il blocco dei contratti i salari nella scuola, e in tutto il settore della conoscenza, hanno subito un vero e proprio attacco''.
''Valorizzare il lavoro professionale degli insegnanti, e dunque il merito, è anche una nostra priorità - commenta il segretario della Uil Scuola Massimo Di Menna - ma deve essere considerato che lo stipendio degli insegnanti italiani è al penultimo posto dei Paesi europei. La media è di 1.200-1.300 euro al mese e i salari sono praticamente fermi da anni. Se davvero si vuole promuovere il merito occorrono risorse. Accettiamo dunque la sfida del neo ministro e aspettiamo l'apertura di un negoziato contrattuale ma sapendo che serve un cambiamento'' rispetto a quanto fatto fino ad oggi.
''Non bisogna considerare l'anzianità in maniera dispregiativa, negativa, perché in tutta Europa è considerata un elemento della carriera'', dice Francesco Scrima, segretario generale della Cisl Scuola che però invita il neo ministro Giannini ''ad affrontare le vere emergenze in atto del settore scuola, dal personale Ata al quale stanno scippando la retribuzione dopo un lavoro regolarmente fatto ai dirigenti scolastici che per una interpretazione del ministero dell'Economia si vedono decurtare lo stipendio. Poi tutta la nostra disponibilità a sederci attorno ad un tavolo per affrontare'' come sostenere gli stipendi degli insegnanti. 

 


 

  • Scuola. Primo no dei prof alla Giannini: "Gli scatti di anzianità non si toccano"

I sindacati contro il ministro: prima pensi ad alzare gli stipendi

la Repubblica.it, del 25-02-2014

C’è Matteo Renzi, al Senato, che mette la scuola al centro del paese e chiede la fiducia. Il neopremier, spiega, entrerà nelle aule d’Italia ogni mercoledì perché «l’educazione che si dà nelle scuole è motore dello sviluppo, di fronte alla crisi economica non puoi non partire dalle scuole». Poi c’è il suo ministro di riferimento che alla terza intervista è già in urto con il mondo della scuola tutto, e pure con l’università. Repubblica
Stefania Giannini, 53 anni, neoministro dell’Istruzione per nove stagioni e fino al 2013 rettore dell’Università per stranieri di Perugia, aveva detto: «I soldi sono necessari per la scuola pubblica e quella paritetica, ma il modello scatti d’anzianità va rivisitato con coraggio. Premi a chi si impegna, chi si aggiorna, chi studia. Tutti i mestieri che si rispettino prevedono premi». Altrove aveva ribadito il concetto.
Ottenendo una risposta corale da un fronte sindacale compatto: «Nessuna cancellazione degli scatti».
Reduce dall’errore di Natale del governo Saccomanni-Carrozza (la sottrazione in busta paga dell’ultimo scatto d’anzianità nonostante accordi firmati lo avessero mantenuto), Rino Di Meglio del sindacato Gilda ha attaccato: «Con le prime esternazioni il ministro Giannini ci ha gelato dimostrando di non sapere che l’anzianità di servizio è riconosciuta agli insegnanti in tutti i paesi europei e in Italia è la più bassa in termini assoluti». La Cgil (Flc) con Domenico Pantaleo dettaglia lo stipendio medio di un docente italiano: 1.200-1.300 euro al mese, penultimi in Europa. «Queste vecchie impostazioni di stampo gelminiano non tengono conto che il contratto nazionale della scuola è bloccato dal 2006». Francesco Scrima, segretario della Cisl, ricorda le ultime emergenze contratto: «Al personale amministrativo stanno scippando la retribuzione dopo un lavoro regolarmente fatto e i presidi oggi si vedono decurtare lo stipendio ». Marcello Pacifico dell’Anief: «Macché blocco degli scatti, alla scuola servono risorse aggiuntive. Il ministro Giannini prima di tutto ha l’obbligo di allineare le buste paga all’inflazione ». I Cobas vedono nelle proposte del Pd renziano («il superamento di alcune rigidità del contratto nazionale») e in quelle del ministro di Scelta civica («sì ai licei in quattro anni») un disegno comune e annunciano «un rafforzamento delle mobilitazioni in corso».
Gli universitari a loro volta si sono irretiti di fronte alla riproposizione — a proposito delle borse di studio — del prestito d’onore, questione di memoria gelminiana e tradizione anglosassone (negli Usa molti laureati non riescono a restituire i soldi prestati e in Italia l’istituto non è mai decollato). Venerdì prossimo gli studenti della Link saranno sotto le finestre del Miur per la prima contestazione al neoministro.
Ecco, quelle di Renzi sono «parole belle e importanti», come dice il segretario Scrima. Ma sulla scuola belle parole le pronunciò
all’insediamento l’ex rettore Mario Monti, che poi costrinse Profumo a tagliare ancora, e pure Enrico Letta («di fronte a nuovi tagli mi dimetterò»), che poi lasciò diverse partite in deficit. Già oggi il neoministro Giannini dovrà decidere sui 24 mila addetti alle pulizie a rischio licenziamento (pronta una proroga di un mese), l’abrogazione della quota 96 sul pensionamento dei prof (pronta la proposta di legge Ghizzoni) e, appunto, gli scatti d’anzianità. Le ipotesi pre-Giannini parlavano di un reintegro di quelli congelati, non della loro cancellazione.

 


 

  • Letta vuole riformare la scuola: comincerà a 5 anni per finire a 18

È la proposta contenuta nel documento “Impegno Italia 12 febbraio 2013”, presentato dal premier, frutto del ‘patto di coalizione’ per condurre l’Esecutivo sino a fine legislatura.

13/02/2014

La Tecnica della Scuola.it, del 13-02-2014, Alessandro Giuliani

È la proposta contenuta nel documento “Impegno Italia 12 febbraio 2013”, presentato dal premier, frutto del ‘patto di coalizione’ per condurre l’Esecutivo sino a fine legislatura. Si parte con una sperimentazione, ma si cercherà da subito di incrementare il numero di scuole materne. Largo al merito, portando a termine il regolamento sulla valutazione. In arrivo 2 miliardi di euro per la sicurezza degli edifici. Sui precari invece non si cambia: GaE blindate fino a chiusura naturale; confermati i corsi abilitanti universitari e i concorsi triennali. Università: serve un nuovo sistema della ripartizione del fondo ordinario, di contribuzione e delle borse di studio.
Avviare i cicli di istruzione scolastici formativi a 5 anni anziché 6, senza anticipare la primaria, ma considerando quella d’infanzia scuola a tutti gli effetti. E concludere, di conseguenza, le superiori a 18 anni. In modo da adeguare l’Italia agli standard europei. È la proposta contenuta nel documento “Impegno Italia 12 febbraio 2013”, presentato dal premier Enrico Letta in conferenza stampa, frutto delle intese raggiunte attraverso il ‘patto di coalizione’ che porterebbe l’attuale esecutivo sino alla fine della legislatura
“Cominciare e finire prima”, ha detto il capo del governo,. “Vogliamo un grande piano per il Paese perché la scuola – ha aggiunto Letta - cominci a 5 anni e finisca a 18". Il Governo sulla scuola prevede "un impegno significativo" che si aggiunge anche a quello per "scuole sicure e cablate". "Un piano ambizioso con bambini al centro", ha concluso Letta. 
Andando a scorrere il progetto, che “nasce per rendere chiara, di fronte al Paese, l’assunzione di responsa­bilità che il governo chiede al Parlamento e ai partiti”, si evince che l’attuale premier indica la scuola tra le “priorità” del Paese, da centrare attraverso “azioni precise, con un cronoprogramma certo”.
Per quanto riguarda la scuola dell’infanzia, nel documento viene reputata come una parte formativa a tutti gli effetti, con “un ruolo fondamentale nello sviluppo personale, sociale e cognitivo del bambino. Valorizzare questa fase – si legge ancora - integrandola nel ciclo di istruzione ha lo scopo di mettere gli studenti nella condizione di iniziare ad apprende­re prima e meglio, con la possibilità di terminare gli studi in anticipo con un livello di conoscenze e occupabilità pari, o superiore, a quello garantito dal sistema attuale”. Il concetto è chiaro: iniziare prima per finire prima.
A tal fine, il governo si impegna ad “avviare la sperimentazione di un modello, da introdurre in modo graduale, in cui la scuola dell’infanzia costituisca il primo grado nel ciclo di istruzione obbligatoria”. E a “ristrutturare i cicli scolastici in modo da con­sentire ai giovani italiani di diplomarsi prima in linea con gli standard europei”. Considerando l’esiguità di scuole dell’infanzia, “entro il terzo trimestre saranno individuate risor­se per l’istituzione, in via sperimentale, di sezioni aggiuntive di scuola dell’infanzia”.
Letta si impegna anche a “introdurre criteri più stringenti di va­lutazione e valorizzazione del merito: è essenziale poter contare su un sistema condiviso e affidabile di valutazione delle scuole, che permetta di premiare il merito”. Questo obiettivo si attuerà portando a termine, entro il 2014, “il regolamento sulla valutazione al fine di assicurare la piena operatività del Siste­ma nazionale di valutazione delle scuole pubbli­che e delle istituzioni formative incentrato sull’Invalsi.
Investire nell’edilizia scolastica è fonda­mentale per contribuire alla ripresa economica e alla rigenerazione urbana. Importanti iniziative sono state già assunte e vanno ora rese tutte operative. Tra gli impegni figura un investimento “nel periodo 2013-2015” di “oltre due mi­liardi di euro per gestire la sicurezza e l’ade­guatezza delle strutture scolastiche”; il completamento “dell’Anagrafe dell’edilizia scolastica, ferma al 1996”; una accelerazione sugli “interventi in corso di realizzazione a partire dai 692 già avviati con il DL Fare. Entro il secondo trimestre saranno adottati i ne­cessari provvedimenti attuativi”.
Solo conferme, invece, sul reclutamento dei nuovi insegnanti e per il supera­mento del precariato. “Gli interventi devono prevedere un sistema di selezione di alta qualità che abiliti i giovani insegnanti alla professione attraverso l’università, e in numero adeguato alla domanda”. L’impegno è quindi quello di “confermare la chiusura definitiva delle gra­duatorie a esaurimento”, con buona pace degli abilitati dell’ultimo triennio (che così per essere immessi in ruolo dovranno necessariamente passare attraverso il concorso pubblico). Il governo conferma anche la volontà d “avviare corsi universitari abilitanti calibrati sul fabbisogno effettivo” e “indire concorsi a cadenza triennale”. La novità arriverà, “entro l’anno”, dalla “riforma dei percorsi di formazione iniziale e di reclutamento”.
La rivisitazione di alcuni assi portanti del sistema formativo riguarderà anche il sistema di finanziamento delle università e il diritto allo studio accademico. “Il sistema attuale di finanziamento degli atenei – sostiene il Governo Letta - ha il limite di penalizzare gli istituti che operano nei contesti socio-economici più difficili. Le uni­versità che per mancanza di risorse esterne e infrastrutture non sono in grado di innovare la propria offerta si trovano oggi a non poter com­petere per l’assegnazione di risorse pubbliche. Nel caso invece in cui l’offerta sia attraente, si possono creare ostacoli alla frequenza di tutti gli studenti interessati così come alla loro mobilità geografica, anche all’interno della UE, con rica­dute sulla mobilità sociale”. L’impegno è quello di “proseguire l’azione avviata di incremento delle risorse ordinarie per le Università e definire un nuovo sistema per la loro ripartizione, in modo da valutare i risultati della ricerca e della didatti­ca con gli indicatori socio-economici del territorio nel quale l’università si trova a operare, e il loro impatto sulla sua performance”; oltre che “riformare il sistema di contribuzione degli studi universitari sulla base di criteri di equità e progressività” e “aumentare il numero degli studenti beneficiari di borse di studio e di forme di welfare studen­tesco”.
“Lettera aperta ai miei studenti”, lo sfogo di un'insegnante fabrianese: “Hanno passato davvero il segno: ci chiedono di lavorare gratis, ce lo chiedono ad anno scolastico iniziato”.

 


 

  • Da www.viverefabriano.it/, del 12-02-2014

'Cari studenti, vi confesso che tante volte ho avuto la tentazione di togliere il disturbo e battere in ritirata. Ancora di più negli ultimi anni: anni di degrado culturale, ormai ne sono convinta, pianificato, voluto, non casuale'. Questa la lettera, che riceviamo e pubblichiamo, di un'insegnante fabrianese ai suoi studenti.

"Ho sempre creduto nel motto di don Lorenzo Milani secondo cui 'non c’è niente di più ingiusto che fare parti uguali tra disuguali'. La scuola costruisce la democrazia se riesce a colmare la disuguaglianza, a eliminare lo svantaggio, a far crescere tutti, ma soprattutto chi ha meno mezzi (sociali, economici, culturali). Non può adempiere al suo ruolo di educatore chi viene continuamente mortificato; non si può combattere contro questa cinica guerra alla cultura, all’istruzione, ai giovani, al futuro, alla democrazia, con l’individualismo, il menefreghismo e la rassegnazione di chi lavora nella scuola, di chi la frequenta e di chi ci manda i propri figli.
Sento un senso di nausea insopportabile ogni volta che all’improvviso qualcuno scopre che 'bisogna rimettere al centro dello sviluppo del paese la scuola (quella pubblica, ca va sans dire), la ricerca e la cultura': sono solo slogan, cari ragazzi e cari genitori, solo prese per il culo, di solito immediatamente smentite da votazioni in commissione contro il ripristino delle ore di storia dell’arte, da tagli del ministero alle risorse per il miglioramento dell’offerta formativa, dai soliti contributi alle scuole paritarie o dal mortificante trattamento ricevuto dai nostri ricercatori, veri talenti che appena possono ci abbandonano.
Io ho da poco saputo che quest’anno scolastico nè io nè i miei colleghi riceveremo un centesimo per i lavori già pianificati, programmati e soprattutto necessari, per più della metà già svolti, visto che siamo a metà anno scolastico (perché le istituzioni quelle che dovremmo insegnare a rispettare, sono talmente corrette e rispettose dei cittadini e dei lavoratori, che ce lo comunicano a fine gennaio). Mi riferisco alle attività dell’alternanza scuola lavoro, dell’orientamento professionale, delle attività pomeridiane di recupero e sostegno, di approfondimento disciplinare o di laboratorio.
Perché? Perché quei soldi servirebbero a coprire gli scatti di anzianità (peraltro dovuti) anche per il 2013. Hanno passato davvero il segno: ci chiedono di lavorare gratis, ce lo chiedono ad anno scolastico iniziato, senza il minimo rispetto per la nostra dignità umana e professionale. Così ho deciso di aderire alla protesta indetta dal sindacato Flc CGIL di astenermi dal 21 febbraio al 22 marzo da qualsiasi attività aggiuntiva.
E se alla data del 22 marzo niente sarà cambiato (come purtroppo credo) presenterò le dimissioni dai miei incarichi e rifiuterò di svolgere anche una sola ora di recupero pomeridiano o altre attività extra. Dovremmo farlo tutti in massa e mettere l’opinione pubblica e le famiglie in condizione di capire che il male lo stanno facendo a voi e al vostro futuro, senza contare che lo schiavismo è stato abolito da più di due secoli! Recentemente alcuni di voi, miei cari studenti, hanno svolto un saggio breve dal titolo “il lavoro: diritto, dovere, dignità” o in alternativa un tema su libertà uguaglianza e fratellanza. Mi chiedo perché continuo a raccontarvi certe balle, ostinandomi a credere in certi principi e a pretendere di trasmetterli, costringendovi a riflettere sulla vostra vita. Presuntuosa vero?
A volte quando affermo queste cose con convinzione, mi sorge il dubbio se sto recitando, se le parole che dico corrispondono ancora alla mia convinzione di poter incidere sulla vostra formazione umana e civile o se sono solo un mero quanto inutile atto di volontà. Comincio a sentirmi inadeguata.
Amavo tanto questo lavoro, lo svolgevo con entusiasmo e creatività, con passione e la giusta dose di caparbietà. Ora no, lo svolgo solo per senso del dovere, quello che i miei genitori mi hanno trasmesso con il dna. E meno male che il sangue non è acqua. Così qualcosa, sebbene poco, posso ancora darvi. E scusate, davvero, se è poco".

Giuseppina Tobaldi – docente di letteratura e storia all’istituto tecnico per il turismo Morea.

 


 

  • Scuola, comparare non conviene

l'Unità, del 11-02-2014, di Benedetto Vertecchi

MENTRE SI CONTINUA A DISCETTARE SULLA POSIZIONE MODESTA (PER USARE UN EUFEMISMO) CHE LE NOSTRE SCUOLE OCCUPANO NELLE GRADUATORIE messe a punto in base ai risultati delle rilevazioni comparative dell’Ocse, non sembra suscitare altrettanto interesse la ricerca delle ragioni del malessere del sistema educativo. Tutti si affannano a dichiarare la centralità dell’educazione per lo sviluppo del Paese, ma pochi si sforzano di superare interpretazioni di breve momento per individuare le radici di un malfunzionamento sempre più evidente. Accade anche di peggio, e cioè che si pretenda di superare la crisi con annunci sempre meno credibili di innovazioni che starebbero per essere introdotte, senza peraltro mai indicare elementi obiettivi che dovrebbero giustificare un atteggiamento di fiducia. Si direbbe che ormai si sia rinunciato a spiegare le ragioni della crisi e si utilizzino cascami interpretativi presi a prestito da altri settori della vita sociale, o si sfruttino gli aloni positivi associati a elementi di razionalità impliciti nello sviluppo tecnologico, per coprire l’assenza di interpretazioni e progetti originali per lo sviluppo del sistema educativo. Eppure, proprio cercando di capire quali siano gli scenari che nei diversi Paesi caratterizzano l’attuale fase di trasformazione dei sistemi educativi, si potrebbero trarre utili indicazioni circa le direzioni verso cui tendere. Anche se in modo schematico, potremmo separare nelle politiche scolastiche alcuni principali orientamenti. Il primo è quello di Paesi in cui l’analfabetismo continua a costituire una piaga diffusa e nei quali la miseria diffusa, unita a condizioni politiche sfavorevoli, impedisce che si promuova la crescita dei sistemi educativi. Un secondo orientamento è quello di Paesi che hanno effettuato scelte per uscire dalla marginalità delle condizioni postcoloniali e seguire un percorso di sviluppo che riguardi insieme la vita civile e politica, il sistema produttivo e l’educazione. Il terzo orientamento è quello che si manifesta in Paesi tesi a un potenziamento dalle strutture produttive che prescinde dal perseguimento di traguardi ugualmente impegnativi nella vita sociale. Infine, c’è da considerare l’orientamento dei Paesi europei e di quelli che, in altri continenti, si pongono in continuità con la medesima tradizione. Le comparazioni Ocse riguardano soprattutto quest’ultimo orientamento. Sono poste in evidenza le diversità che si manifestano tra un Paese e l’altro, ma le graduatorie sulle quali si richiama l’attenzione indicano, bene che vada, che ci sono Paesi che ottengono risultati migliori di altri, ma non che quei risultati sono da considerare di per sé positivi. Ciò ha favorito l’inserimento in chiave concorrenziale nelle posizioni elevate delle graduatorie del terzo orientamento, presente soprattutto in alcuni Paesi dell’estremo Oriente e, dall’ultima rilevazione (2012), in Cina, o almeno nella provincia presa in considerazione, quella di Shangai. Solo per il prevalere nell’attività dell’Ocse di una logica di globalizzazione si è potuto accettare di comporre in un unico quadro modelli educativi tanto lontani fra loro come sono quelli europei rispetto a quelli di alcuni Paesi che recentemente hanno conosciuto un rapido sviluppo dell’educazione scolastica, come quelli che prima sono stati menzionati. In quei Paesi il livello di competitività alla base del successo scolastico è incomparabile rispetto a quello che si osserva in Europa. Il successo è perseguito ad ogni costo, anche a quello di sacrificare altri aspetti importanti dell’educazione scolastica, sono quelli che si collegano alla socializzazione e allo sviluppo affettivo. Gli esami sono fortemente selettivi, e in conseguenza già a quindici anni (l’età presa in considerazione per le comparazioni Ocse) il percorso educativo appare segnato dagli effetti di una competizione esasperata, non di rado all’origine di un’autodistruttività che contraddice il ruolo dell’educazione, quello di favorire l’adattamento alla vita delle nuove generazioni. Ha senso comparare dati sul successo scolastico che si riferiscono a situazioni così diverse? Ma, anche restando all’interno del quarto orientamento, quello della scuola europea, ci si trova di fronte a differenze che riducono fortemente la capacità delle graduatorie di dar conto della capacità dei sistemi educativi di perseguire determinati intenti. Si passa da sistemi scolastici che si sono progressivamente caratterizzati per la loro capacità di organizzare una parte prevalente del tempo di vita degli adolescenti a sistemi che si limitano ad assicurare un certo numero di lezioni, senza tener conto della necessità di radicare l’apprendimento degli allievi attraverso attività che comportino l’esercizio di un saper fare intelligente. Nelle comparazioni internazionali non sono i nostri allievi che scapitano rispetto ai loro coetanei europei, ma è il nostro sistema scolastico che denuncia l’angustia delle scelte effettuate, sul piano della quantità (orari rachitici di funzionamento) e della qualità, ovvero, in primo luogo, dell’uso delle risorse. Quando si fanno annunci mirabolanti sulle prospettive salvifiche di un’innovazione fondata su soluzioni delle quali nessuno è in grado di dimostrare l’efficacia (e spesso è stato, invece, dimostrato che possono indurre effetti negativi), la comparazione non ha nulla a che fare con le prestazioni degli allievi, ma con le scelte dissennate operate a livello del sistema. 

 


 

  • Il nuovo sostegno taglia i precari

La creazione dell'area unica inciderà sui trasferimenti

ItaliaOggi, del 11-02-2014, di Carlo Forte

L'unificazione delle aree del sostegno nelle scuole superiori si farà già da quest'anno. E con lei sono a rischio moltissimi posti di lavoro nella scuola.
Il ministero dell'istruzione sta spingendo il piede sull'acceleratore e ha già presentato alle organizzazioni sindacali una bozza di accordo.
La proposta dell'amministrazione centrale è diretta a modificare l'ipotesi di contratto sui trasferimenti e sui passaggi siglata il 17 dicembre scorso ed inviata alla funzione pubblica il 22 gennaio.
L'intenzione del dicastero di viale Trastevere è quella di procedere celermente così da chiudere l'accordo in tempo per le prossime operazioni di mobilità.
Che secondo quanto risulta a ItaliaOggi dovrebbero partire nel mese di marzo con la presentazione delle domande on line. Se non ci saranno intoppi, la sottoscrizione definitiva dell'ipotesi di contratto potrebbe avvenire già il 24 febbraio prossimo. Fermo restando che, per l'unificazione delle aree, bisognerà sottoscrivere un accordo a parte, che gli addetti ai lavori chiamano «sequenza contrattuale».
Il testo del nuovo accordo andrà a sostituire l'articolo 30 del contratto sulla mobilità è disporrà l'unificazione delle 4 aree (AD01, AD02; AD03; AD04) in cui attualmente sono suddivise le specialità del sostegno delle superiori. Il tutto in analogia con quanto già avviene nelle scuole secondarie di I grado. In buona sostanza, dunque, l'amministrazione scolastica avrebbe deciso di non attendere la mobilità annuale per dare attuazione all'articolo 13, del decreto legge n. 104/92 (così come modificato dall'art. 15, comma 3 bis, della L. 128/2013).
E ciò, sempre secondo quanto risulta a ItaliaOggi, coinciderebbe con precise indicazioni che sarebbero state impartite direttamente dal ministro, Maria Chiara Carrozza.
Il rischio che si corre, con l'applicazione della nuova disciplina, è quello di ingenerare una forte riduzione dei posti di lavoro per i docenti a tempo determinato. E la fase più rischiosa per i precari è proprio quella dei trasferimenti. Al momento, infatti, il passaggio sul sostegno (che si configura giuridicamente come un trasferimento) può essere chiesto solo con riferimento all'area di appartenenza. E ciò limita fortemente le probabilità di ottenere il movimento richiesto.
Ma se la possibilità del passaggio sarà consentita su qualsiasi area, a prescindere da quella di appartenenza, il numero dei docenti che otterranno il passaggio è destinato a salire vertiginosamente. Ciò determinerà una forte contrazione delle disponibilità di posti sul sostegno già nell'organico di diritto.
E poi il colpo di grazia interverrà al momento delle utilizzazioni. In tale fase, infatti, oltre ai movimenti e alle conferme dei docenti della Dos (dotazione organica del sostegno) e cioè dei docenti di sostegno di ruolo che insegnano alle superiori, verranno disposti anche più provvedimenti di utilizzazione sul sostegno. Proprio perché, mancando il vincolo dell'area di appartenenza, gli interessati avranno molte più probabilità di ottenere i movimenti richiesti (sulla Dos). E ciò farà diminuire sensibilmente le disponibilità per gli incarichi di supplenza. Di qui il rischio, più che fondato, che molti docenti precari rimangano senza lavoro.
Va detto subito, però, che l'interpretazione del ministero non è indenne da elementi di criticità. Il decreto Carrozza, infatti, nel disporre in generale l'unificazione delle aree del sostegno, reca una serie di disposizioni di dettaglio che sembrerebbero orientare l'interprete nel senso dell'applicabilità delle nuove disposizioni solo ai fini del reclutamento. Per giunta, ai soli concorsi che saranno banditi dopo l'entrata in vigore della riforma. Salvo una graduale applicazione anche alla disciplina delle supplenze da conferire tramite lo scorrimento delle graduatorie di istituto.
Ed è proprio il mantenimento in vita delle disposizioni sul reclutamento, tramite lo scorrimento delle graduatorie a esaurimento e dei concorsi ordinari già esistenti, che induce a ritenere che gli organici continueranno ad essere compilati recando l'indicazione della tipologia di posto.
E l'assenza di disposizioni di legge modificative dei criteri di compilazione degli organici non fa che confortare la tesi, secondo la quale, i docenti di ruolo che sono stati assunti con il vecchio sistema dovrebbero continuare ad insegnare su posti dell'area per la quale sono stati assunti.
In caso contrario si andrebbe in rotta di collisione con il principio di infungibilità degli insegnamenti. Che preclude la spendibilità in altri insegnamenti dei titoli professionali posseduti dai docenti attualmente in servizio.
Sussistono, dunque, rischi concreti di incrementare il contenzioso. Specie se si pensa che, cambiare le regole del gioco mentre si sta ancora giocando, proprio adesso che il ministero ha emanato la circolare con le disposizioni per le immissioni in ruolo sul sostegno (la n. 362 del 6 febbraio scorso, si veda anche ItaliaOggi di martedì scorso) rischia di mandare in fumo le legittime aspettative di centinaia di precari giunti, dopo anni di attesa, a un passo dall'assunzione.

 


 

  • Anno 2014, fuga dei prof dalla scuola “Siamo stufi, mandateci in pensione”

Nonostante la riforma Fornero abbia bloccato in cattedra tantissimi insegnanti pronti a passare la mano ai più giovani, si profila un consistente incremento di uscite dal lavoro a partire dal primo settembre 2014

la Repubblica.it, del 10-02-2014

SALVO INTRAVAIA
BOOM di pensionamenti in arrivo nella scuola. Nonostante la riforma Fornero abbia bloccato in cattedra tantissimi insegnanti pronti a passare la mano ai più giovani, si profila un consistente incremento di uscite dal lavoro a partire dal primo settembre 2014. I dati, che Repubblica è in grado di anticipare, sono ancora provvisori ma in ogni caso abbastanza significativi per descrivere la voglia che hanno gli insegnanti italiani di gettarsi alle spalle un lunghissimo periodo di lavoro nelle classi senza troppe soddisfazioni, almeno dal punto di vista economico. E per presentare domanda ci sarà tempo ancora fino al 14 febbraio, giacché il termine dello scorso sette febbraio è stato prorogato.
L’anno scorso, quando la riforma del governo Monti sulle pensioni fece crollare i pensionamenti nelle scuole, gli insegnanti che abbandonarono la cattedra furono appena 10.860. Quest’anno, stando alle anticipazioni provenienti dagli uffici di viale Trastevere, saranno parecchi di più se sul finire della scorsa settimana le domande online inoltrate avevano già superato le 12mila e 500 unità. Con un incremento del 15 per cento che potrà soltanto incrementarsi visto che il precedente termine del 7 febbraio per inoltrare le domande è stato prorogato al 14 febbraio prossimo.
Ma perché coloro che hanno maturato i requisiti per la pensione non ci pensano due volte a fare largo ai giovani? Secondo il segretario della Cisl scuola, Francesco Scrima, si tratta di un «chiaro messaggio di stanchezza da parte della categoria». «Chi va in pensione — continua Scrima — non lo fa a cuor leggero ma, secondo quanto ci risulta ascoltando ogni giorno i docenti, per frustrazione: insegnare oggi richiede fatica e impegno che non vengono riconosciuti. Ecco perché in tanti hanno deciso di andare via dalla scuola. E per questa ragione chiediamo al governo, al parlamento e alla politica di attivare tutte le azioni per il riconoscimento del lavoro degli insegnanti e di aprire il confronto per il rinnovo del contratto di lavoro».
I docenti e gli Ata (gli ammini-strativi, i tecnici e gli ausiliari) hanno il contratto scaduto ormai dal 2009, con stipendi tra i più bassi d’Europa. In più, l’ultimo governo Berlusconi e il governo Monti hanno bloccato gli scatti stipendiali automatici previsti dal contratto per consentire almeno un piccolo recupero dell’inflazione. E nei casi in cui gli scatti sono stati pagati, i sei anni tra un avanzamento di stipendio e il successivo si sono dilatati a sette o ad otto. «Gli insegnanti, appena raggiungono il requisito, fuggono dalla scuola», commenta Domenico Pantaleo, leader della Flc Cgil». «Il perché è presto detto: tra tagli, disorganizzazione crescente e condizioni di lavoro sempre più gravose il pensionamento è un’ancora di salvataggio». Ma non solo: «Le persone, insegnanti compresi, temono che si metta mano ancora alla legge Fornero per allungare la permanenza al lavoro. E chi può se ne va». Opportunità negata anche ai cosiddetti docenti “quota 96” (con almeno 36 anni di servizio e 60 anni di età o 35 anni di servizio e 61 di età) che avendo già maturato i requisiti per andare in pensione con la vecchia normativa sono stati bloccati a scuola fino a 67 anni dall’entrata in vigore della legge Fornero perché non è stato previsto che nella scuola l’anno scolastico termina il 30 agosto e non il 31 dicembre. Una “ingiustizia” alla quale il governo Letta sta cercando di porre rimedio.

 


 

  • Sindacati (quasi) uniti contro Carrozza e Saccomanni

I due Ministri del Governo Letta sono riusciti finalmente a mettere d'accordo i sindacati della scuola che ormai sembrano avviarsi verso una azione unitaria a difesa di stipendi sempre più magri per tutti. Ma la stessa Carrozza, a questo punto, potrebbe "saltare".

La Tecnica della Scuola.it, del 08-02-2014, di Reginaldo Palermo

Si sono impegnati a fondo e, alla fine, ce l’hanno fatta: i ministri Carrozza e Saccomanni sono finalmente riusciti a raggiungere l’obiettivo di mettere d’accordo tutti i sindacati, dalla Cisl allo Snals e fino alla Cgil che sembrava ormai orientata ad andare avanti per la propria strada.
L’accordo fra i 5 sindacati che siedono al tavolo delle trattative nazionali si sta realizzando su una questione relativamente limitata ma pur sempre significativa: il taglio del fondo di istituto e la mancata soluzione della questione delle posizioni economiche. Se poi ci mettiamo dentro anche il problema del fondo unico nazionale dei dirigenti scolastici possiamo tranquillamente affermare che l’intesa fra le diverse sigle si estende anche all’ANP.
In realtà, per ora, l’accordo fra i sindacati non è del tutto perfezionato perché le iniziative di mobilitazione e di protesta sono ancora frammentate. Per esempio sulle questioni dei dirigenti scolastici c’è uno sciopero Cgil, Cisl,Uil e Snals per il 14 febbraio al quale però non aderisce Anp che aveva già organizzato un affollato sit-in in viale Trastevere a Roma, nel mese di gennaio.
In questi giorni Flc-Cgil ha proclamato l’astensione da tutte le attività aggiuntive di docenti e ATA dal 21 febbraio al 22 marzo, mentre tutte le altre sigle hanno diffidato Miur e MEF dal procedere al recupero degli aumenti legati alle posizioni economiche ATA dando avvio alla procedura di conciliazione; e c’è anche l’annuncio che, in caso di mancato accordo, gli ATA si asterranno da ogni attività aggiuntiva. Ma, il mancato accordo è nei fatti perché arrivati ormai alla età di febbraio è impossibile bloccare il recupero degli aumenti già attribuiti.
Ma quali potrebbero essere i prossimi sviluppi della vicenda?
Difficile prevederlo perché la questione si intreccia con le vicende politiche più generali. Una possibilità è che in occasione dell’ormai quasi certo “rimpasto” di Governo il ministro Carrozza potrebbe essere immolata con l’accusa di non essere riuscita a dialogare con il mondo della scuola.
Il problema è che, al momento attuale, risulta difficile pensare ad un ministro dell’istruzione capace di dialogare con docenti, ata, dirigenti scolastici e famiglie al quale però non vengano assegnate risorse finanziarie adeguate.
Anzi, quasi certamente il futuro Presidente del Consiglio farà fatica a trovare un nuovo Ministro da mettere al posto di Carrozza che magari, proprio per questo motivo, correrebbe il rischio di rimanere ancora a viale Trastevere ma solo per fare da parafulmine alla incapacità del Governo nel reperire risorse vere da destinare al sistema di istruzione (giorno dopo giorno, i famosi 400 milioni del decreto “La scuola riparte” si stanno infatti rivelando una mezza bufala).
Quello che è certo, però, è che fra un mese o due il Ministro dell’Istruzione (chiunque sia) dovrà rispondere a parecchie domande; in mancanza di risposte chiare l’unità di intenti fra le diverse sigle sindacali potrebbe trasformarsi in un’unità di azione.

 


 

  • Scuole e docenti responsabili dei risultati. È una parola!

Responsabilità sociale legata al “render conto” delle cose che si fanno e di come si fanno e dei risultati che si ottengono o non si ottengono.

ScuolaOggi.it, del 29-01-2014, di Antonio Valentino

Parlare oggi della questione docente – indubbiamente cruciale se si vuole invertire l’attuale tendenza al declino - penso significhi necessariamente e, per alcuni versi, soprattutto, misurarsi col tema della responsabilità sociale degli insegnanti (e delle scuole in genere).
Responsabilità sociale legata al  “render conto” delle cose che si fanno e di come si fanno  e dei risultati che si ottengono  o non si ottengono.
Quella delle responsabilità dei docenti (e dei DS e delle scuole in genere) rispetto agli esiti scolastici degli studenti è - come è risaputo - questione delicata e complessa, perché  il successo e l’insuccesso  a scuola non dipendono solo dalla qualità dei percorsi di insegnamento; dietro i risultati  infatti ci sono anche questioni che hanno a che fare con le caratteristiche degli ambienti familiari e  del contesto sociale degli allievi,   con le storie individuali (esperienze, occasioni …), oltre che con il DNA di ciascuno.
Tutto questo indubbiamente porta a relativizzare – più o meno, a seconda delle diverse visioni che si hanno delle questioni che entrano in gioco - il livello di responsabilità rispetto alla “riuscita” degli studenti,  ma certamente non l’annulla.
La complessità e la delicatezza del tema non possono comunque oscurare alcuni aspetti e comportamenti  ricorrenti nella vita delle nostre scuole. 
Chi ha esperienza di gestione o di sola partecipazione ai Consigli di classe, non necessariamente finalizzati agli scrutini finali, sa per esempio  che l’insuccesso scolastico, soprattutto da parte di quei docenti che hanno un numero elevato di insufficienze nella propria materia, viene messo generalmente in carico ai soli studenti.
Responsabilità soggettive, per molti insegnanti, zero.
Di altri - compresa madre natura - praticamente tutte.
L’idea ancora prevalente
L'idea prevalente di sė ė ancora quella di chi pensa di assolvere ai propri compiti professionali mettendo al centro del proprio impegno, l'attività di insegnamento fermo al trinomio spiegazione - interrogazione - valutazione.
Il cambiamento di ottica (l'insegnante che si preoccupa che lo studente apprenda, che tutti gli studenti apprendano secondo le proprie possibilità e attitudini), non c'è stato ancora. Certamente si sono fatti passi in avanti importanti rispetto ad alcuni decenni fa, quando l'insegnante non doveva preoccuparsi d'altro che di fare delle belle lezioni (quando era in grado di farle), dare voti, promuovere o bocciare. Ora c'è senz'altro una maggiore sensibilità, ma l'idea che il successo e l'insuccesso dipende molto da lui - e dal tipo di intesa che riesce a stringere con i colleghi del suo Consiglio - non ė ancora diffusa. O, almeno, non è prevalente.
Che la crisi del nostro sistema formativo sia anche la conseguenza di questa mancata riforma nei comportamenti e più in generale nel modo di percepire la professione (anche a seguito dei cambiamenti indotti dalla scolarizzazione di massa, ma non solo), ė cosa che non può essere negata.
Come ė indubbio che questa mancata riforma ė soprattutto il frutto di politiche del personale non certo pensate per dare qualità al nostro sistema, di riforme parziali e generali pasticciate e incoerenti e di misure attuative e di accompagnamento che non andavano bene neanche sulla carta.
Pertanto una considerazione diversa, da  parte dei docenti, del proprio lavoro e il sentirsene responsabili rispetto ai risultati che ne conseguono, non ė un problema trascurabile, ma ė parte centrale dell'intera questione docente. E quindi di un ragionamento complessivo che punti a portare la nostra scuola fuori dall'attuale situazione di demotivazione e di diffusa irresponsabilità (per i risultati di apprendimento dei propri allievi).
Portare al centro dell'attenzione la responsabilità della scuola - e quindi delle sue figure centrali - rispetto agli esiti del lavoro scolastico  non ė pertanto obiettivo da poco, sotto molti aspetti.
Nelle scuole se ne parla poco, perché forse si pensa che, a parlarne, si voglia quasi offrire  alibi e giustificazioni all’Amministrazione e alla politica, per le loro inadempienze, ma soprattutto per la mancanza – e non da oggi - di una visione coraggiosa e motivante (credibile) di cui il nostro sistema di istruzione ha sempre sofferto – salvo che per alcuni limitati periodi -.
I ragionamenti che qui si fanno non sono dunque relativi alle responsabilità di vario tipo (civili, dirigenziali, disciplinari, penali), che  le disposizioni normative opportunamente prevedono per i dipendenti dell’Amministrazione Pubblica, nei casi di inosservanza dei propri doveri professionali (omissioni o azioni carenti o comportamenti inadeguati o peggio).
Sfera etico-professionale e profilo del buon insegnante
Il senso di responsabilità rispetto ai risultati al centro di questa riflessione  attiene piuttosto alla sfera etico-professionale di chi opera nella scuola e che è comunque cruciale per “vedere”, progettare e accompagnare i cambiamenti necessari.
Potremmo definirlo “valore aggiunto” (se il termine non fosse abusato), in funzione dell’innovazione e del miglioramento. E include atteggiamenti e comportamenti riferibili soprattutto al farsi carico delle difficoltà di apprendimento e di attenzione dei propri allievi al sapere organizzare per proposte, ambienti, strumenti e modalità adeguati per coinvolgere, motivare, ottenere risultati al meglio delle possibilità di ciascuno, alla capacità di ascolto attivo e all’analisi attenta degli esiti del proprio lavoro, positivi o negativi che siano.
Quindi al sentirsi responsabili del successo o insuccesso dei propri studenti.
La responsabilità percepita in una ricerca sul campo.
L’interrogativo specifico qui al centro del ragionamento  è  soprattutto il seguente: il senso di responsabilità soggettiva e di gruppo va considerato soltanto rispetto alla sfera etica oppure ha un valore sociale e come tale va considerato e promosso?
Ricerche in proposito, dell’ultimo decennio, condotte in paesi del Nord America ed europei (v. nota bibliografica) confermano sostanzialmente  l’idea che il sentirsi responsabili degli insuccessi (ma anche artefici dei successi dei propri allievi) aiuta a diventare dei buoni insegnanti  e anche a vivere meglio (in termini meno stressati o “arrabbiati” o demotivati) la professione.
In Italia non mi risulta siano stati condotti studi specifici al riguardo. Perciò ho letto con interesse i risultati di una ricerca condotta nella provincia di  Parma su “Insegnanti e responsabilità percepita: uno studio empirico” della prof.ssa  Alessandra Cremaschini[1], condotto sulla base di stimoli e strumenti operativi degli studi realizzati nei paesi prima citati.
Si tratta di una tesi svolta per un Corso di Laurea in Psicologia scolastica e di Comunità presso l’Università di Parma, che conferma, per quella provincia, quanto già emerso negli studi ricordati;  ma anche percezioni diffuse tra  chi sa di cose scolastiche.
E cioè che
1.     Sentirsi – ed essere – responsabile dei risultati scolastici è atteggiamento culturale e professionale che aiuta l’insegnante a rapportarsi meglio con i propri studenti e  a migliorare le proprie competenze professionali, in vista di risultati positivi o più positivi del proprio insegnamento.
2.      Il sentirsi - ed essere - responsabili degli esiti formativi dei propri allievi è fortemente favorito da fattori interni ed esterni alla scuola (un certo clima, politiche di coinvolgimento nelle scelte), ma anche da attitudini personali e dalle motivazioni che sono state alla base della scelta di fare l’insegnante.
Questo risultato della ricerca è particolarmente importante perché interpella le competenze del DS rispetto al clima di scuola e al coinvolgimento dei docenti per promuovere un più alto senso di responsabilità e favorire una qualità professionale più elevata. Ma , forse, ancor prima, interpella chi (in primis il MIUR) ha il compito di favorire una professionalità più alta di docenti e DS,  a valorizzarne  l’impegno e a coinvolgerli nelle scelte educative di politica scolastica. E rimanda alle politiche del personale, come quelle per la selezione, la formazione, la valorizzazione, …. .

 


 

  • Sciopero  Pantaleo: "Poche luci e molto ombre dopo l'incontro col ministro Carrozza"

Rassegna.it, del 29-01-2014

"Poche luci e molte ombre" dopo l’incontro con il ministro dell'Istruzione Maria Grazia Carrozza. Lo afferma il leader della Flc Cgil, Mimmo Pantaleo. "Riteniamo importante - osserva il sindacalista - l’impegno del governo a rimuovere il blocco delle retribuzioni dei lavoratori della scuola per il 2014, ma rileviamo che rimangono ancora aperte alcune partite importanti sugli aspetti salariali e contrattuali del personale della scuola".
Sul versante del ripristino degli scatti di anzianità di docenti e Ata, "pur apprezzando l’impegno del ministro per evitare il recupero forzoso in busta paga, dobbiamo rilevare che nessuna risorsa aggiuntiva è stata prevista e l’unica possibilità che ci è stata prospettata è la decurtazione del fondo per il miglioramento dell’offerta formativa (Mof), che rappresenta un pezzo del salario accessorio del personale e l’unica fonte certa per sostenere l’ampliamento dell’offerta formativa".
Nessuna soluzione, invece, per le posizioni economiche del personale Ata e per il salario di posizione dei dirigenti scolastici. "Diciamo con chiarezza - prosegue Pantaleo - che su questi punti occorre trovare una soluzione in fretta: non è accettabile che si proceda retroattivamente a recuperare somme già pagate a fronte di prestazioni rese negli anni scorsi. Se queste risposte non arriveranno, la Flc Cgil continuerà con le mobilitazioni ed è pronta ad arrivare fino allo sciopero della scuola".
"Assolutamente inammissibile - a suo giudizio - è invece il tentativo di scambiare salario/stabilizzazioni di gelminiana memoria. Non possiamo non rilevare la contraddizione fra il ripristino degli scatti 2012 e l’intervento sulle carriere dei neoimmessi in ruolo per sostenere i costi delle assunzioni previste dal piano triennale licenziato dal Governo un paio di mesi fa. Lo diciamo fin da adesso: se è questo ciò che si prefigura, la Flc darà battaglia per evitare che a pagare il conto siano sempre i più deboli".
"Crediamo infatti - conclude la nota - che sia giunto il momento di cessare gli interventi invasivi sui diritti contrattuali e salariali del personale della scuola e fare l’unica cosa che i lavoratori e le lavoratrici si aspettano: rinnovare il contratto nazionale di lavoro sia per la parte economica che normativa. La Flc a tal proposito nelle prossime settimane presenterà la propria piattaforma contrattuale per dare un segnale tangibile dell’impegno della nostra organizzazione. Ora sta al governo, dare una risposta a tutto il personale dei comparti della conoscenza in termini di salario e di miglioramento delle condizioni di lavoro garantendo il rinnovo del contratto nazionale".

 


 

  • Scuola, 18mila assunzioni per l'anno 2014-2015. Ma i sindacati rimangono critici

Incontro tra ministro e rappresentanti di categoria

la Repubblica.it, del 29-01-2014

IN ARRIVO più di 18mila assunzioni nella scuola per il prossimo anno scolastico, ma i sindacati non sono affatto soddisfatti dell'azione di governo sulla scuola. Oggi, durante l'incontro con i sindacati, il ministro dell'Istruzione Maria Chiara Carrozza e i sindacati ha annunciato la prima tranche di assunzioni nella scuola a partire dal mese di settembre. Si tratta, per entrare nel dettaglio, di 12.625 immissioni in ruolo per i docenti su posto comune, 1.604 per gli insegnanti di sostegno e 4.317 posti per il personale Ata: amministrativi, tecnici e ausiliari. Un pacchetto di assunzioni che farà scattare il nuovo Piano triennale varato dal governo Letta che prevede oltre 82mila assunzioni.
L'annuncio è arrivato mentre ancora sulla questione degli scatti di anzianità non si è ancora trovata la soluzione definitiva. "Un confronto su molti temi  -  è il commento piuttosto interlocutorio di Francesco Scrima, della Cisl scuola  -  e con qualche interessante spunto di apertura, ma nessuna concreta soluzione per le emergenze su cui abbiamo ancora una volta posto l'accento nell'incontro di oggi con la ministra". Prima fra tutte quella per le cosiddette posizioni economiche del personale Ata, scatti che hanno già prodotto aumenti stipendiali, che per effetto del blocco degli automatismi economici, gli Ata rischiano di dovere restituire.
Una eventualità che Scrima definisce come "un vero e proprio furto a danno di lavoratori che hanno già svolto le attività per cui sono stati retribuiti". Anche la Flc Cgil è piuttosto critica nei confronti della Carrozza e parla di incontro con "poche luci e molte ombre". "Sul versante del ripristino degli scatti di anzianità di docenti e Ata - dichiara Mimmo Pantaleo - pur apprezzando l'impegno del ministro per evitare il recupero forzoso in busta paga, dobbiamo rilevare che nessuna risorsa aggiuntiva è stata prevista e l'unica possibilità che ci è stata prospettata è la decurtazione del fondo per il miglioramento dell'offerta formativa". "Nessuna soluzione invece - continua Pantaleo - per le posizioni economiche del personale Ata e per il salario di posizione dei dirigenti scolastici".
La Gilda degli insegnanti parla di importante "passo in avanti" per le prime assunzioni del Piano triennale e chiede al ministro di affrettare l'incontro all'Aran per trovare una soluzione alla questione degli scatti stipendiali. Ma sul contingente delle assunzioni su sostegno secondo l'Anief "i conti non tornano". "Col decreto Scuola  -  dichiara Marcello Pacifico - si era stabilito un numero di assunzioni su sostegno superiore di dieci volte. Con questi numeri, oltre a danneggiare gli allievi, si rischia di lasciare per strada almeno 2mila docenti specializzati vincitori di concorso. Mentre Marco Paolo Nigi, dello Snals, "ha espresso con forza l'insoddisfazione del sindacato che non può dichiararsi soddisfatto soltanto perché il governo ha ridotto le penalizzazioni per il personale scolastico".

 


 

  • Istruzione professionale al centro per portare i giovani dalla scuola al lavoro

Le proposte del Forum giovani per scuole e atenei, in occasione della pubblicazione del Rapporto McKinsey «Education to Employment»

La Stampa.it, del 22-01-2014

ROMA

La valorizzazione dell’istruzione professionale, attraverso l’aumento delle ore laboratoriali e un investimento fattivo nel miglioramento della qualità didattica dei percorsi. È una delle proposte avanzate dal Forum nazionale dei giovani alla luce del Rapporto McKinsey «Education to Employment» , presentato a Bruxelles.
Altri interventi, secondo il Forum, dovrebbero riguardare forme di sostegno all’occupazione giovanile e di incontro tra domanda-offerta di lavoro, come ad esempio la Youth Guarantee; una riorganizzazione degli strumenti di alternanza tra istruzione e lavoro sia nelle scuole sia negli atenei, come, ad esempio, lo stage; la necessità che le scuole si interfaccino con il proprio tessuto imprenditoriale territoriale per poter garantire una formazione che valichi gli insegnamenti teorici.
A parere del Forum deve essere prioritario per il Paese ricercare un piano di rifinanziamento complessivo dell’istruzione pubblica a partire da cinque ambiti d’azione fondamentali: edilizia scolastica, partecipazione e protagonismo studentesco, istruzione tecnica e professionale e collegamento tra saperi e lavoro, diritto allo studio, strumenti didattici e formazione degli insegnanti.
«Le politiche di definanziamento in materia d’istruzione degli ultimi governi – afferma Giuseppe Failla, portavoce del Forum – hanno reso drammatico lo stato in cui versano scuole e università. Il tasso di abbandono scolastico al 17,6% e il drastico calo delle immatricolazioni all’università non soltanto pongono il nostro Paese a una distanza abissale dagli obiettivi di Europa 2020, ma impongono anche una riflessione complessiva sulle scelte economiche da prendere in una fase ancora di profonda crisi. L’Italia, infatti, è tra i Paesi che spende meno per Scuola e Università pubblica».
«Riteniamo che la “bolla formativa”, ossia l’incapacità del mercato del lavoro di assorbire i nostri laureati, sia – aggiunge Stefano Vitale, Consigliere del Forum con delega a Scuola, Università e Ricerca – un’analisi attenta e una risposta politica chiara. I nostri laureati non sono troppi, troppi sono i nostri giovani disoccupati. Bisogna costruire dei legami profondi tra mercato del lavoro e istruzione, mettendo in discussione il modello produttivo attuale a partire dalle scuole e dalle università e voltando pagina rispetto a quelle forme di lavoro precario oggi molto diffuse». E per Failla «è evidente come le risorse stanziate dal DL Istruzione dello scorso Settembre «siano in questo quadro positivi ma assolutamente insufficienti».

 


 

  • Renzi, università e ricerca: a quando l’incontro?

In un’Italia che vede l’istruzione e la scienza ignorate, quando non umiliate, sarebbe auspicabile che chi si candida con determinazione alla guida del Paese, e soprattutto a un suo cambiamento strutturale, illustrasse con chiarezza le proprie idee, possibilmente iniziando un dialogo con i protagonisti di questo mondo, sulla pelle dei quali sono state fatte nei decenni scorsi tutte le “riforme epocali”.

l'Unità, del 22-01-2014, di Paolo Valente

Recente accelerazione della curva di Matteo Renzi all’interno del Partito Democratico lo ha portato fino alla massima responsabilità: segretario nazionale.
Si è trattato di un percorso che è passato attraverso le primarie perse a dicembre 2012 a vantaggio di Pierluigi Bersani, dalla vittoria-non vittoria del PD alle ultime elezioni politiche del 24-25 febbraio 2013, fino al tentativo fallito di formare un governo da parte di Bersani, con il conseguente esecutivo di “larghe intese” affidato a Letta, e le conseguenti dimissioni del Segretario. Quindi la reggenza, e le nuove primarie a dicembre 2013, vinte largamente da Renzi.
Come primo atto, il nuovo Segretario ha rilanciato il suo programma di riforme, a partire dalla legge elettorale, il bicameralismo perfetto, il Titolo V della Costituzione.
In questo anno, dalle primarie perse a quelle vinte, all’azione politica di Matteo Renzi, candidato e sindaco di Firenze, si è sovrapposto l’operato del Governo presieduto da Enrico Letta, sostenuto, ovviamente, dal PD, e composto, in parte, di parlamentari etichettati come “renziani”. Tra questi, il ministro dell’istruzione, università e ricerca, l’on. Carrozza.
Governo che, come spesso capita di leggere nelle analisi politiche anche meno ostili, è costretto, sia per la particolare natura della maggioranza che lo sostiene in Parlamento, sia per il respiro molto limitato del suo programma e mandato, a navigare a vista in molti dei settori in cui il nostro Paese versa in grave difficoltà: la crescita, il lavoro, le riforme istituzionali.
In materia di scuola, per esempio, abbiamo assistito ad una vicenda, quella degli scatti stipendiali degli insegnanti, che dice semplicemente che in molti settori ci si limita a gestire il lascito delle pesanti manovre economiche lungo la linea di continuità del “rigore” Tremonti-Monti-Saccomanni, cercando di correggere la rotta, appunto “a vista”, ogni qual volta si metta in evidenza un’emergenza dal punto di vista sociale, politico o comunque di consenso.
Né in tema di università e ricerca c’è stata una decisa inversione di tendenza rispetto ai passati governi. Certo, i tagli pesanti della legge 133/2008 e della manovra correttiva del maggio 2010 (D.L. 78/2010) non sono stati aggravati, e la ministra Carrozza rivendica alcune decine di milioni di Euro di incremento nel fondo ordinario dell’Università, che pure in questi anni si è ridotto da oltre 8 a circa 7 miliardi; non si può però sostenere che la logica del ridimensionamento sia stata superata. Anzi, l’impianto della riforma “Gelmini” dell’Università, tutta incentrata sulla riduzione del personale, sull’accentuato controllo sui bilanci degli atenei, e accompagnata da una selva di decreti attuativi che hanno – di fatto – bloccato l’intero sistema, non è stato minimamente messo in discussione.
Il reclutamento universitario, infatti, oltre che limitato dalla drastica riduzione del turnover, è bloccato di fatto dall’incredibile lentezza delle procedure per l’abilitazione scientifica nazionale (il requisito per poter aspirare a diventare professore): a un anno e mezzo dalla scadenza del bando (DD 222 del luglio 2012) ancora mancano all’appello i risultati di oltre metà delle commissioni.
Sorte migliore non tocca agli enti pubblici di ricerca: dispersi e soggetti al controllo multiplo e incoerente di (almeno) sette ministeri, non solo vedono i loro bilanci erosi da anni, ma annegano nel mare della burocrazia, in quanto accomunati dalla pletora di norme – spesso illogiche e punitive – che riguardano la pubblica amministrazione. A fronte di annunci di “cabine di regia” e una “nuova governance unificata”, che minacciano l’ennesima riforma a costo zero, l’ennesimo riordino in grado di aggravare i problemi dovuti ovviamente alla scarsità di risorse e personale, ma anche e soprattutto alla scarsa o nulla programmazione, non si vede quell’attenzione a un settore che in qualsiasi altro Paese d’Europa è considerato strategico: nessuna traccia del nuovo Piano Nazionale della Ricerca, finanziamenti universitari (PRIN) azzerati, programma per i giovani ricercatori annunciato ma non bandito (Futuro in ricerca), rientro dei cervelli bloccato, decreti di riparto in ritardo cronico, vertici degli enti di ricerca ancora “monchi”, problema oramai cronicizzati e per i quali sono state annunciate soluzioni ancora all’ordine del giorno (precariato, in particolare ma non solo all’INGV, accorpamenti e soppressioni di enti, blocco dei contratti e delle carriere, caos normativo, eccetera). Una lista lunga e noiosa per i non addetti ai lavori.
Sembra allora molto lontano il Forum università, saperi e ricerca, presieduto dalla stessa Carrozza, che rivendicava prima delle primarie 2012 “immediatezza, riformismo, metodo” per “settori irrinunciabili come l’università e la ricerca, dato che l’Italia, per competere in un nuovo scenario globale, ha bisogno di più laureati e di più ricercatori”, e che avrebbe voluto “fare dell’università il luogo centrale della promozione di nuove risorse umane, in grado di diventare l’ossatura di un nuovo modello di sviluppo del nostro paese”.
Su tutto questo, che dovrebbe rappresentare l’investimento sul futuro del nostro Paese, sulle sue prospettive di crescita e rilancio della competitività, ovvero l’istruzione, la formazione, l’università e la ricerca scientifica e tecnologica, Renzi ha parlato e scritto poco, in questi mesi. Sulla scuola, dato l’enorme bacino rappresentato non solo dal quasi milione di dipendenti, ma soprattutto dai molti milioni di famiglie degli studenti di ogni ordine e grado, un passo significativo viene dal programma per le primarie:
Gli insegnanti sono stati sostanzialmente messi ai margini, anche dal nostro partito. Abbiamo permesso che si facessero riforme nella scuola, sulla scuola, con la scuola senza coinvolgere chi vive la scuola tutti i giorni. Non si tratta solo di una autogol tattico, visto che comunque il 43% degli insegnanti vota PD. Si tratta di un errore strategico: abbiamo fatto le riforme della scuola sulla testa di chi vive la scuola, generando frustrazione e respingendo la speranza di chi voleva e poteva darci una mano.
Il Pd che noi vogliamo costruire cambierà verso alla scuola italiana, partendo dagli insegnanti, togliendo alibi a chi si sente lasciato ai margini, offrendo ascolto alle buone idee, parlando di educazione nei luoghi in cui si prova a viverla tutti i giorni, non solo nelle polverose stanza delle burocrazie centrali
Molto meno, su università e ricerca, praticamente assenti dal dibattito politico. Questo se si dimenticano le lontane dichiarazioni a una trasmissione televisiva (8 e mezzo di qualche mese or sono) che sono tutt’altro che rassicuranti e – quanto meno – denotano un scarso approfondimento dei temi dell’istruzione universitaria, della ricerca e della loro valutazione e valorizzazione:
Ma come sarebbe bello se riuscissimo a fare cinque hub della ricerca, cosa vuol dire? Cinque realtà anziché avere tutte le università in mano ai baroni, tutte le università spezzettatine, dove c’è quello, il professore, poi c’ha la sede distaccata di trenta chilometri dove magari ci va l’amico a insegnare, cinque grandi centri universitari su cui investiamo… Le sembra possibile che il primo ateneo che abbiamo in Italia nella classifica mondiale sia al centoottantatreesimo posto? Io vorrei che noi portassimo i primi cinque gruppi, poli di ricerca universitari nei vertici mondiali.
In un’Italia che vede l’istruzione e la scienza ignorate, quando non umiliate, sarebbe auspicabile che chi si candida con determinazione alla guida del Paese, e soprattutto a un suo cambiamento strutturale, illustrasse con chiarezza le proprie idee, possibilmente iniziando un dialogo con i protagonisti di questo mondo, sulla pelle dei quali sono state fatte nei decenni scorsi tutte le “riforme epocali”.
Anche su questo, Matteo, cambia verso.

 


 

  • Sostegno, una mina per precari. I posti per le supplenze occupati dai docenti di ruolo

Viale Trastevere intenzionato a unificare le aree. Ecco quali saranno gli effetti

ItaliaOggi, del 21-01-2014, di Carlo Forte

Dal prossimo anno scolastico i docenti precari di sostegno delle superiori rischiano di rimanere disoccupati. Secondo quanto risulta a Italia Oggi, il ministero dell'istruzione sarebbe orientato a disporre l'unificazione delle aree del sostegno (AD01, AD02, AD03, AD04) già dal 1° settembre 2014, non solo ai fini dei nuovi concorsi, ma anche della mobilità. Ciò vuol dire che i docenti di ruolo potranno chiedere il trasferimento sul sostegno a prescindere dall'area di appartenenza. E potranno farlo anche in sede di utilizzazione. L'opzione più rischiosa per i precari è quella dei trasferimenti. Al momento, infatti, il passaggio sul sostegno (che si configura giuridicamente come un trasferimento) può essere chiesto solo con riferimento all'area di appartenenza. Ciò limita fortemente le probabilità di ottenere il movimento richiesto. Ma se la possibilità del passaggio sarà consentita su qualsiasi area, a prescindere da quella di appartenenza, il numero dei docenti che otterranno il passaggio è destinato a salire vertiginosamente. Ciò determinerà una forte contrazione delle disponibilità di posto sul sostegno già nell'organico di diritto. E poi il colpo di grazia interverrà al momento delle utilizzazioni. In tale fase, infatti, oltre ai movimenti e alle conferme dei docenti della Dos (dotazione organica del sostegno) e cioè dei docenti di sostegno di ruolo che insegnano alle superiori, verranno disposti anche più provvedimenti di utilizzazione sul sostegno. Proprio perché, mancando il vincolo dell'area di appartenenza, gli interessati avranno molte più probabilità di ottenere i movimenti richiesti (sulla Dos). Il che farà diminuire sensibilmente le disponibilità per gli incarichi di supplenza. Di qui il rischio, più che fondato, che molti docenti precari rimangano senza lavoro. Va detto subito, però, che l'interpretazione del ministero non è indenne da elementi di criticità. Il decreto Carrozza, infatti, nel disporre in generale l'unificazione delle aree del sostegno, reca una serie di disposizioni di dettaglio che sembrerebbero orientare l'interprete nel senso dell'applicabilità delle nuove disposizioni solo ai fini del reclutamento. Per giunta, ai soli concorsi che saranno banditi dopo l'entrata in vigore della riforma. Salvo una graduale applicazione anche alla disciplina delle supplenze da conferire tramite lo scorrimento delle graduatorie di istituto. Ed è proprio il mantenimento in vita delle disposizioni sul reclutamento, tramite lo scorrimento delle graduatorie a esaurimento e dei concorsi ordinari già esistenti, che induce a ritenere che gli organici continueranno ad essere compilati recando l'indicazione della tipologia di posto. E l'assenza di disposizioni di legge modificative dei criteri di compilazione degli organici non fa che confortare la tesi, secondo la quale, i docenti di ruolo che sono stati assunti con il vecchio sistema dovrebbero continuare ad insegnare su posti dell'area per la quale sono stati assunti. In caso contrario si andrebbe in rotta di collisione con il principio di infungibilità degli insegnamenti. Che preclude la spendibilità in altri insegnamenti dei titoli professionali posseduti dai docenti attualmente in servizio. A viale Trastevere, però, non hanno dubbi circa l'applicabilità delle nuove norme anche alla mobilità dei docenti di sostegno. La diatriba, infatti, verte solo sul termine a partire dal quale la nuova disciplina deve essere implementata. Secondo quanto risulta a Italia Oggi, gli orientamenti sarebbero essenzialmente due. Un primo orientamento, che darebbe per scontata la necessità di dare applicazione alle nuove disposizioni, anche per la mobilità, con effetti già a partire dal 1° settembre prossimo. E un secondo orientamento, che invece propenderebbe per un termine più lato: il 1° settembre 2017. Termine che si ricaverebbe dal comma 3-bis dell'articolo 15 del decreto Carrozza. Che comunque fa riferimento all'attuazione dell'unificazione ai fini delle graduatorie di istituto. Dunque, del reclutamento dei supplenti da parte dei dirigenti scolastici.

 


 

  • Il nuovo orientamento in Italia? Ancora in alto mare

Dal tutor alla formazione, tanti i ritardi accumulati dal Ministero. Prevale il Fai da te

ItaliaOggi, del 21-01-2014,di  Giorgio Candelora

Le promesse fatte in pompa magna alla vigilia di Natale dal ministro Carrozza facevano pensare a una svolta e molti erano pronti a giurare che col 2014 ví sarebbe stato un nuovo inizio per l'orientamento scolastico. Ai circa sei milioni e mezzo di euro previsti dal decreto istruzione, prevalentemente per potenziare l'orientamento in uscita dei ragazzi delle superiori (da estendere anche agli studenti del quarto anno), si sarebbe dovuta affiancare, al ritorno dalle vacanze natalizie, una nota di indirizzo per consentire a dirigenti e insegnanti di mettere in pratica le novità: orientamento in raccordo con il territorio e soprattutto un tutor in ogni scuola. E ancora, formazione obbligatoria per tutti i docenti e master specifici. Infine una robusta campagna pubblicitaria, a base di spot su Rai Scuola e MTV, e un sito sul portale istruzione.it; il tutto per fornire informazioni e una guida efficace agli alunni delle medie, alle prese con la scelta del liceo e ai grandi da orientare verso l'università e il mondo del lavoro. Poco di tutto questo è avvenuto sul serio: della nota ministeriale promessa non c'è ancora traccia e la figura del tutor di istituto va sfumando nel limbo degli effetti annuncio. Solo gli spot e il sito sono partiti ma senza sortire lo sperato effetto chiarificatore, visto che a un mese dalla chiusura delle iscrizioni alle superiori una famiglia su due con figli in terza media non ha ancora scelto né l'indirizzo né l'istituto giusto, mentre i maturandi sono più impegnati sulle (costose) simulazioni "fai da te" dei test per le facoltà a numero chiuso esami  previsti in primavera, che a navigare tra le informazioni piuttosto generiche proposte dal sito del ministero. Ma i ritardi sulla tabella di marcia del nuovo orientamento rischiano di creare parecchia confusione soprattutto alle singole scuole. Con il decreto istruzione e con la conferenza di fine anno del ministro, sembrava che il tutor dovesse essere cosa fatta già in gennaio, e invece i dirigenti navigano a vista senza indicazioni. Teoricamente ogni istituto dovrebbe già essere dotato di questa figura di riferimento, docente universitario, manager o imprenditore, ma continuano a mancare le istruzioni sui criteri di selezione, sulle caratteristiche specifiche e sulle retribuzioni dei tutor, dubbi che la nota ministeriale avrebbe dovuto chiarire. A questo punto è molto probabile che di tutta la questione si riparli il prossimo anno, anche perché tra circa un mese il termine per le iscrizioni sarà chiuso e con esso anche il tema dell'orientamento, al di là delle buone intenzioni, finirà col perdere inevitabilmente di mordente e di attualità fino al prossimo autunno. In alto mare anche la questione della formazione obbligatoria dei docenti sull'orientamento. Anche qui il decreto istruzione parla chiaro: le scuole devono provvedere. Ma come e con quali fondi non è dato sapere. Non bastano certo i poco più di sei milioni già stanziati, né si potrà provvedere con i fondi di istituto, in queste settimane pesantemente tagliati. E c'è chi avverte che rendere obbligatoria la formazione implica un cambiamento del profilo professionale e identitario dei docenti, con ricadute sia sulla progressione giuridica ed economica delle carriere degli insegnanti che sulla libertà di scelta per questi ultimi dell'ente o del soggetto riconosciuto presso il quale formarsi. Insomma una gran confusione che rischia, al di là degli annunci, di lasciare ancora una volta tutto come prima.

 


 

  • Sindacati in agitazione. Si va allo sciopero?

Sono diverse le vertenze aperte e si stanno tutte concludendo con un nulla di fatto.

La Tecnica della Scuola.it, del 21-01-2014, di R.P.

L’approvazione del decreto legge “sblocca scatti” da parte del Governo è servito certamente a allentare le tensioni con i sindacati ma la situazione resta difficile e delicata.
In questi giorni si sono susseguiti diversi incontri di “raffreddamento” per esaminare le richieste dei sindacati, ma tutti si sono conclusi con un nulla di fatto.
Nel pomeriggio di oggi 20 gennaio la Commissione istituita presso il Miur, presenti dirigenti ministeriali e sindacati del comparto, ha preso in esame le richieste avanzate nei giorni scorsi dalla Flc-Cgil e, come era facilmente prevedibile, non si è riusciti a trovare una sintesi fra le diverse posizioni.
D’altronde trovare un’intesa sarebbe stato del tutto impossibile dal momento che la Flc chiede la soluzione di non poche questioni; si va dal ripristino delle risorse sottratte al fondo di istituto, al ripristino degli scatti di anzianità del 2013 fino al problema delle posizioni economiche degli Ata.
Senza trascurare la questione del regolare pagamento degli stipendi dei supplenti e delle ferie maturate ma non fruibili.
E quella della Flc, non è l’unica vertenza aperta, dal momento che anche la Fgu-Gilda - su questioni analoghe - non ha accettato la conciliazione.
Nella giornata del 21 è in programma l’esame della vertenza aperta da Cisl, Uil e Snals sul fondo unico nazionale dei dirigenti scolastiche che si presenta anch’essa di difficile soluzione.
In concreto tutti i sindacati, per un motivo o per l’altro, sono sul piede di guerra e quindi a questo punto non si può escludere un’azione di sciopero proclamata anche da più sigle.
Ma per capire meglio cosa potrebbe accadere è bene attendere la pubblicazione ufficiale del decreto “sblocca scatti” perché il testo definitivo potrebbe riservare qualche sorpresa. 

 


 

  • Scatti, ora è caccia alle risorse. Tagli lineari alle scuole o recupero dei fondi non spesi

Istruzione-Tesoro lavorano ai 370 milioni di copertura. Il decreto legge toglie il tetto del 2014

ItaliaOggi, del 21-01-2014, di Alessandra Ricciardi

Non ci sono state quelle risorse aggiuntive che alcune dichiarazioni del ministro dell'istruzione, Maria Chiara Carrozza, avevano lasciato intendere. E il 2013, salvo correttivi, resterà congelato, non utile ai fini della maturazione degli scatti di anzianità, così come prevede il dpr 122 approvato dal consiglio dei ministri di fine agosto. Ma potrà essere recuperato il 2012, attraverso la via negoziale, e intanto non ci sarà nessun recupero di eventuali aumenti già pagati. Comunque, già dal 2014 non ci saranno più tetti agli stipendi degli insegnanti. Queste le novità sul fronte scatti, come emergono dal decreto legge, approvato la scorsa settimana dal governo, e dalla direttiva a cui il ministero dell'istruzione e il Tesoro stanno lavorando. É l'ultimo passaggio, l'atto di indirizzo all'Aran, per recuperare definitivamente il 2012, dando copertura non solo agli scatti già pagati lo scorso anno a circa 80 mila insegnanti, ma anche ad altri 120 mila a cui andranno in pagamento quest'anno. Se è chiaro che la coperta in tutto costerà 370 milioni di euro, e che solo 120 milioni sono quelli disponibili della fetta del 30% dei risparmi della riforma Gelmini, ad oggi non è ancora deciso come saranno coperti i restanti 250 milioni di euro. Due le ipotesi in campo: procedere a tagli lineari sui vari capitoli di finanziamento del fondo delle scuole; utilizzare in larga misura le risorse non spese dagli istituti negli anni passati e solo in via residuale ricorrere a una riduzione lineare sugli altri capitoli. Secondo quanto risulta a ItaliaOggi, sarebbero circa 200 i milioni di euro giacenti a settembre 2013, e imputabili ad altre annualità, che non risultano impegnati. Un tesoretto che in queste ore è sotto la lente dell'Istruzione. Se vi si dovesse ricorrere, dovrà essere modificata la bozza di direttiva che era stata formulata solo pochi giorni fa. Questa fissava i capitoli a cui l'Aran, l'agenzia governativa per la contrattazione nel pubblico impiego, e i sindacati in sede di negoziato avrebbero dovuto attingere. E fissava alcuni paletti: non più del 30% di taglio sul fondo per i corsi di recupero delle scuole superiori; garantire un adeguato finanziamento per i turni festivi e notturni dei convitti; non intaccare l'attuale livello di finanziamento per le ore eccedenti e le sostituzione dei colleghi assenti. Il fondo per le istituzioni scolastiche non deve essere ridotto, ulteriore paletto, in misura superiore alle altri voci contrattuali, al netto delle risorse per i corsi di recupero e gli straordinari nei convitti. Nel caso in cui il governo non dovesse raggiungere un'intesa con i sindacati entro sei mesi, recita il decreto legge, i 120 milioni disponibili della riforma Gelmini andranno a bilancio dello stato. A compensare gli anticipi di cassa che il Tesoro sta facendo per gli aumenti già concessi lo scorso anno. E che comunque non verrebbero recuperati. Ma è ipotesi improbabile che l'accordo non si faccia. Almeno per Cisl, Uil, Snals e Gilda che hanno già firmato un accordo analogo non più di un anno fa e nel giro di pochi giorni. Restano invece tutte le perplessità della Flc-Cgil, contraria a una nuova riduzione del Mof. Già quest'anno comunque le cose dovrebbero cambiare: «Per il personale della scuola non trova applicazione per l'anno 2014, nell'ambito degli stanziamenti di bilancio relativi alle competenze stipendiali, l'articolo 9, comma 1, del decreto legge 31 maggio 2010. n. 78... come prorogato dall'articolo 1, comma l, lettera a) del citato dpr 122 del 2013». Alle risorse necessarie perché i salari crescano, dopo anni di stop, ci si penserà in altra sede.

 


 

  • Arrivano 3740 assunzioni, tutte per il personale Ata

L'amministrazione ha superato l'impasse che aveva precluso le assunzioni di questa tipologia di personale, e cioè la questione dei docenti inidonei

ItaliaOggi, del 21-01-2014, di Carlo Forte

Al via le immissioni in ruolo del personale Ata. Sono 3740 i posti destinati alle assunzioni a tempo indeterminato del personale Ata, che il ministero dell'istruzione ha predisposto per le relative operazioni. Al momento non è stata ancora effettuata la ripartizione regione per regione e provincia per provincia. Ma un dato è certo: l'amministrazione ha superato l'impasse che aveva precluso le assunzioni di questa tipologia di personale. E cioè la questione dei docenti inidonei. Che nelle intenzioni del legislatore, in prima battuta, avrebbero dovuto transitare nei ruoli del personale Ata. Salvo poi mutare indirizzo nell'ultima tornata legislativa. Adesso, infatti, il transito nei ruoli del personale non docente è diventato facoltativo. Ma i docenti inidonei che non avranno presentato domanda in tal senso dovranno rassegnarsi ad affrontare le incognite della mobilità intercompartimentale. Quanto alla decorrenza delle immissioni in ruolo, secondo quanto risulta a Italia Oggi, il termine iniziale sarà fissato al 1° settembre 2013. Ma si tratterà di una decorrenza retroattiva solo ai fini giuridici. Mentre la decorrenza ai fini economici sarà fissata alla data di effettivo inizio del rapporto di lavoro. Nei prossimi giorni l'amministrazione renderà noto il prospetto con le immissioni in ruolo, suddivise anche per profili professionali. Dopo di che, sarà emanato il provvedimento autorizzatorio e gli uffici periferici disporranno materialmente le assunzioni. In quella fase le amministrazioni periferiche applicheranno le cosiddette quote di riserva e le priorità previste dalla legge 104/92 nei confronti dei disabili e di chi li assiste. Le riserve saranno applicate in massima parte in favore degli invalidi, ai quali è riservato il 7% dei posti dell'organico regionale, e degli orfani per lavoro, la cui quota di riserva è pari alli% dell'organico. Le priorità della legge 104/92 consistono invece in una mera precedenza nella scelta della sede di destinazione.

 


 

  • Trovare lavoro, la laurea serve ancora

5 anni dopo l'Università solo il 6% non ha occupazione

Il Messaggero, del 19-01-2014, di Alessia Camplone

LA RICERCA
ROMA Cinque anni dopo la laurea solo il 6% dei giovani che hanno scelto l’università è ancora senza lavoro. È il dato che rileva AlmaLaurea, il consorzio interuniversitario che mira a coinvolgere studenti, mondo accademico e aziende, in una rilevazione che si muove sulla scia degli ultimi dati dell’Istat sulla disoccupazione giovanile, giunta invece al suo massimo storico. Si potrebbe dire: la laurea è ancora un buon passaporto per entrare nel mercato del lavoro.
Ma forse sarebbe meglio dire: una buona laurea. La disoccupazione giovanile, tra i 15 e i 24 anni, secondo l’Istat (l’Istituto centrale di statistica) a novembre ha raggiunto il suo poco ammirevole primato, toccando il 41,6%, addirittura di quattro punti più alto rispetto a novembre 2012. Si tratta però di un dato che va tarato considerando che riguarda, fortunatamente, non l’intera popolazione giovanile (che comprende ovviamente anche i ragazzi che studiano, tra secondarie e università) ma soltanto la platea dei cosiddetti “attivi” occupati-inoccupati. Considerando che i disoccupati tra i 15-24enni sono 659 mila, dunque tra i giovani di quell’età i disoccupati sono in realtà l’11% del totale.
Va detto però che, se studiare rappresenta tuttora un antidoto alla disoccupazione, secondo i risultati raccolti da AlmaLaurea, non è più efficace quanto in passato. La crisi si fa sentire anche per chi ha un titolo di studio come la laurea: a un anno dal conseguimento il tasso di disoccupazione (sia triennale, sia laurea specialistica o specialistica a ciclo unico) è leggermente superiore al 20%. E l’area della disoccupazione tra i laureati è di fatto raddoppiata nel giro di appena quattro anni. Soprattutto, c’è laurea e laurea. Esaminando le rilevazioni dell’AlmaLaurea con la lente d’ingrandimento tutte le differenze vengono alla luce. Tra i neolaureati specialistici biennali, a un anno dal titolo, la disoccupazione supera il 30% nel gruppo psicologico, seguito a breve distanza dai laureati dei gruppi giuridico e letterario. Va meglio ai laureati dei gruppi chimico-farmaceutico, ingegneria e scientifico, per i quali l'area della disoccupazione è prossima al 10%. Meglio ancora i laureati delle professioni sanitarie.
LA VITA LAVORATIVA
Nell'intero arco della vita lavorativa, i laureati beneficiano di un "tasso di occupazione" di 13 punti maggiore rispetto ai diplomati (77 contro 64%). E una laurea - questo lo rileva l’Ocse - rispetto a un diploma, vale una retribuzione superiore del 50%. Ma anche qui è un dato medio. Quando la realtà italiana è vista in un’ottica europea, secondo AlmaLaurea, va ricordato che il nostro percorso di studi preuniversitari risulta uno dei più lunghi nel continente, con l’inevitabile ingresso all’università in età più avanzata e, quindi, l’arrivo nel mercato del lavoro anch'esso posticipato. Se c'è laurea e laurea, ci sono anche differenze tra Nord e Sud. La media del 6% di disoccupati dopo cinque anni, è frutto appunto di media: al Nord si scende al 4%, al Sud si sale al 10%. L'età media della laurea per la platea degli oltre 226mila laureati usciti nel 2012 dai 64 atenei AlmaLaurea è 27 anni e diviene prossima ai 28 anni per i laureati magistrali/specialistici.
DIFFERENZE TRA I SESSI
Ci sono, ancora, differenze tra donne e uomini. A cinque anni dalla laurea, il tasso di disoccupazione delle donne (7%) supera ampiamente quello degli uomini (4%). La differenza di sesso, come quelle del territorio, continua a dare risultati diversi: è l'Italia delle differenze, che resiste ancora alla prova dei fatti.

 


 

  • Previdenza. Per le donne stop alla pensione a 57 anni

Finirà in anticipo

Il Messaggero, del 19-01-2014, di Luca Cifoni

IL CASO
ROMA L’uscita di sicurezza inizierà a chiudersi tra poche settimane. Dal prossimo mese di marzo non sarà più possibile per le lavoratrici autonome andare in pensione a 58 anni, con 35 di contributi, accettando un assegno decurtato per l’applicazione del calcolo contributivo. Poi da settembre l’alt verrà dato alle dipendenti, che avrebbero potuto scegliere la stessa via di fuga già a 57 anni.
Verrà così meno una delle ultime scappatoie alle regole rigide della riforma previdenziale voluta a fine 2011 dal governo Monti nel pieno dell’emergenza finanziaria e passata alla storia con il nome dell’allora ministro del Lavoro Elsa Fornero. Ma la fine di questo regime alternativo, reso appetibile proprio dal brusco innalzamento dei requisiti ordinari per la pensione, è tutt’altro che pacifica. Lo scorso novembre la commissione Lavoro del Senato ha approvato una risoluzione che impegna il governo a rivedere la situazione: in particolare con la modifica della circolare dell’Inps che di fatto anticipa i tempi rispetto all’originaria scadenza di fine 2015. Finora però non c’è stata nessuna novità.
La storia inizia nel 2004, quando in una delle riforme previdenziali che hanno costellato la storia recente(la Maroni-Tremonti, quella del famoso “scalone”) viene inserita un’opzione particolare riservata alle donne. Per loro sarebbe stato possibile, in via sperimentale fino al 2015, sfruttare ancora i requisiti per la pensione di anzianità che venivano cancellati (57 anni di età e 35 di contributi, con un anno in più di età per le lavoratrici autonome); a condizione però di optare per il calcolo dell’intero trattamento previdenziale con il sistema di calcolo contributivo, generalmente più svantaggioso.
SCAMBIO CONVENIENTE
Insomma, un po’ di soldi in meno in cambio della possibilità di andare a riposo prima. La decurtazione è significativa, almeno del 15-20 per cento (anche se varia caso per caso) ma per più di qualcuna lo scambio risulta comunque appetibile. La convenienza aumenta poi a partire dal 2012, con la riforma Fornero che stringe le maglie della pensione di vecchiaia e di quella anticipata: l’opzione contributiva consente di andare via sei-sette anni prima, che non sono pochi.
Nel marzo del 2012 arriva però una circolare dell’Inps che precisa alcune cose. Intanto ai requisiti di età bisognerà aggiungere gli ulteriori mesi (tre dal 2013) imposti dalle nuove norme in corrispondenza dell’incremento della speranza di vita. Ma soprattutto a questo regime si continueranno ad applicare le vecchie “finestre mobili” di uscita (un anno di attesa per le dipendenti, uno e mezzo per le autonome), con la conseguenza che il termine ultimo del 31 dicembre 2015 per la fine del regime sperimentale deve essere riferito proprio all’uscita effettiva e non alla maturazione dei requisiti.
LA RICHIESTA AL GOVERNO
Ecco quindi che per sfruttare l’opzione le lavoratrici autonome devono aver compiuto l’età di 58 anni (e raggiunto i 35 anni di contributi) entro febbraio di quest’anno, perché poi ci sono i tre mesi aggiuntivi e l’anno e mezzo di finestra Per le dipendenti il compleanno deve cadere di fatto entro agosto, massimo settembre per le pubbliche. A meno di un intervento del governo che vada nella direzione richiesta dalla commissione Lavoro: la resistenza non è all’Inps ma al ministero dell’Economia, che a suo tempo per ragioni finanziarie aveva sollecitato l’interpretazione restrittiva.

 


 

  • Scuola, l'eclissi dei progetti

l'Unità, del 18-01-2014, di Benedetto Vertecchi

C’È QUALCOSA DI ANOMALO NEL CONFRONTO IN ATTO SULL’EDUCAZIONE, CHE SI MANIFESTA CON MAGGIORE evidenza in quei contesti, come quello italiano, nei quali da troppo tempo si è rinunciato a sviluppare una riflessione originale ed autonoma circa il profilo culturale che si vorrebbe fosse generalmente posseduto dalla generalità della popolazione e le soluzioni educative che potrebbero consentire il conseguimento di tale intento. Nello sviluppo storico dell’educazione occidentale l’indicazione di traguardi ha anticipato l’assunzione di determinate caratteristiche dell’organizzazione educativa e delle pratiche didattiche. Ciò non significa che fossero enunciati principi, e tantomeno regole, uniformemente seguiti, né che vi fosse da parte degli educatori la medesima consapevolezza degli effetti che sarebbero potuti derivare dalla loro attività,ma che all’educazione si riconosceva una funzione di concausa nei processi di trasformazione sociale. Il grande sviluppo dell’educazione scolastica che ha consentito negli ultimi secoli di assicurare crescenti opportunità d’istruzione per i bambini e i ragazzi, considerato dal punto di vista che prima s’indicava, quello dell’elaborazione di un profilo culturale diffuso, appare come la realizzazione di scenari delineati nelle grandi utopie che hanno rappresentato una parte importante del pensiero europeo dalla metà del secondo millennio. Attraverso l’utopia ci si poteva riferire a una realtà costruita per negazione di quella che costituiva la comune esperienza: se l’analfabetismo rappresentava la condizione più frequente, gli abitanti dei non-luoghi dell’utopia si distinguevano per il possesso di una cultura alfabetica; se l’educazione formale era per lo più rivolta a strati favoriti della popolazione maschile, nell’utopia tutti potevano fruirne, senza distinzione di classe o di genere;se il tempo della vita era in massima misura assorbito dal lavoro, si affermava l’idea che una uguale rilevanza dovessero avere il riposo e le attività rivolte a coltivare la sensibilità e l’intelligenza di ciascuno; se la conoscenza era considerata una prerogativa individuale,se ne affermava l’utilità per il miglioramento delle condizioni di vita; e così via. Ciò che interessa rilevare riflettendo sull’anomalia del confronto educativo in corso è che mentre negli scenari utopistici determinate caratteristiche della popolazione erano considerate necessarie per la coerenza dell’insieme della proposta di assetto sociale, da qualche tempo si tende ad affermare il contrario, e cioè che gli indirizzi dell’attività educativa devono essere congruenti a scelte che sono già operanti nei diversi contesti sociali,in particolar modo nelle attività produttive. Risulta evidente che è cambiata sostanzialmente la concezione del tempo: mentre il grande sviluppo dell’educazione formale è da considerarsi l’effetto di progetti per il lungo periodo, da qualche tempo sembra essere stato abbandonato l’intento progettuale, e sostituito da una nozione funzionalista dell’offerta di apprendimento. In altre parole, le scelte educative non sono più coerenti con un disegno a lungo termine volto a definire il profilo della popolazione, ma rispondono alle esigenze di breve periodo che si manifestano nel sistema produttivo. Le concezioni educative elaborate nell’ambito dell’utopia classica hanno anticipato il corso di eventi che si sarebbero osservati nei secoli successivi, mentre nelle condizioni attuali si vorrebbe realizzare un’improbabile concomitanza tra le richieste del mercato del lavoro e l’offerta di apprendimento del sistema d’istruzione formale. La rinuncia a interpretare l’educazione secondo una logica autonoma non è l’ultima ragione della crisi che, in varia misura, ha investito i sistemi scolastici dei Paesi industrializzati. Anche quando i dati derivanti da rilevazioni comparative sembrano segnalare l’esistenza di condizioni migliori, ci si dovrebbe chiedere se a posizioni più favorevoli in graduatoria corrispondano risultati educativi capaci di configurare un profilo innovativo di cultura della popolazione, o se i livelli più elevati siano da porre in relazione solo a migliori condizioni organizzative e ad apparati ideologici più coinvolgenti. Non sarebbe inutile chiedersi, per esempio, quanta parte abbiano avuto le condizioni organizzative e la pressione ideologica nel consentire ai sistemi scolastici di alcuni Paesi dell’estremo oriente di scalare le posizioni più elevate nelle graduatorie dell’ultima indagine Ocse-Pisa. E, soprattutto, ci si dovrebbe chiedere se una competitività così spinta da far accettare, oltre a un orario scolastico lungo, alcune ore ulteriori di pre e di post scuola, con quel che ne consegue in termini di resistenza allo sforzo prolungato, corrisponda a una concezione educativa che si è disposti a riconoscere come preferibile o solo ad accettare come selezione de facto. Ma, in un caso e nell’altro,non si capisce quale sia il disegno culturale, se non per ciò che riguarda l’utilità che dagli studi si può trarre nel breve termine. In Italia la crisi è più grave non solo per l’eclissi di progettualità che da troppo tempo caratterizza il sistema educativo, ma anche per il crescere della distanza tra le soluzioni didattiche e organizzative del nostro sistema scolastico rispetto a quello degli atri paesi industrializzati. Mentre si discetta in un latinorum da Don Abbondio di soluzioni tecniche per questo o quell’aspetto del funzionamento del sistema, sembra che nessuno si preoccupi di capire che cosa stia accadendo nelle scuole, quali siano le difficoltà che gli insegnanti incontrano nel loro lavoro quotidiano, di che cosa ci sia realmente bisogno in un disegno di lungo termine, che cosa di culturalmente significativo bambini e ragazzi dovrebbero saper fare non solo al momento, ma nella lunga prospettiva di vita che li attende. 

 


 

  • Salvi gli stipendi degli insegnanti. A gennaio «cedolino» con il taglio e accredito compensativo

Accordo Istruzione-Economia Oggi il decreto legge va all'esame del Consiglio dei ministri

Il Sole 24 Ore, del 17-01-2014, di Eugenio Bruno - Claudio Tucci

Un meccanismo per evitare il recupero degli "scatti" percepiti nel 2013 (come da impegno politico preso direttamente dal premier, Enrico Letta) e che, successivamente, lasci inalterate le retribuzioni di docenti e Ata attraverso una compensazione con il riconoscimento degli aumenti stipendiali 2012. I ministeri dell'Economia e dell'Istruzione hanno trovato la soluzione "tecnica" alla questione degli scatti d'anzianità del personale della scuola e l'hanno messa nero su bianco in un decreto legge composto da un unico articolo e 5 commi che  arriverà oggi sul tavolo del Consiglio dei ministri. Il Tesoro ha sospeso l'attività di recupero fmo a 150 euro lordi al mese sulle retribuzioni di docenti e Ata che hanno percepito lo "scatto" nel 2013, in contrasto, però, con quanto previsto dal Dpr 122 del 4 settembre 2013 che invece ha disposto il blocco di qualsiasi aumento stipendiale per l'intero 2013. Le buste paga sono così cresciute, e la rinuncia al recupero di queste somme decisa dal governo, dopo forti polemiche politiche e sindacali, ha creato uno squilibrio nei conti pubblici. Per questo la soluzione tecnica è stata individuata in un decreto legge, subito operativo, che farà due cose. Autorizzerà il Tesoro a soprassedere dal recupero in tranche di 150 euro al mese delle somme corrisposte nel 2013. E contestualmente gli consentirà, a partire da febbraio, di continuare a pagare lo stesso stipendio, comprensivo quindi dello "scatto" maturato e già acquisito. Complessivamente, fanno sapere i due ministeri dell'Economia e dell'Istruzione, la questione interessa circa 52mila tra docenti e Ata che hanno ricevuto mediamente lo scorso anno aumenti di circa 700 euro (nella scuola gli scatti d'anzianità sono l'unico modo per avere incrementi di stipendio, a differenza del resto del pubblico impiego dove ciò avviene per selezione e per merito). Per quanto riguarda il mese di gennaio, non potendo sterilizzare subito il taglio fino a un massimo di 150 curo, docenti e Ata vedranno arrivare un cedolino che conterrà il prelievo. Questo cedolino sarà accredito il 23 gennaio. Ma uno o due giorni dopo, sottolineano dal Mef, riceveranno un nuovo cedolino che conterrà l'importo decurtato, che verrà quindi restituito, lasciando inalterata la busta paga. Come verrà compensato questo mancato gettito per lo Stato? La soluzione individuata da Mef e Miur, e anticipata nei giorni scorsi su questo giornale, passa dal recupero degli scatti 2012, bloccati dal Dl 78/2010, che prevede però anche la procedura per il loro "recupero". Con questi soldi si compenserà (in una sorta di dare e avere) l'incremento mantenuto in busta paga. L'utilità 2012 vale circa 120 milioni per il solo 2012; e dal 2013 circa 370 milioni. La copertura avverrà per 120 milioni utilizzando i risparmi (30%) derivanti dai tagli Tremonti-Gelmini e per la restante quota procedendo a un nuovo taglio del «Mof», il fondo per il miglioramento dell'offerta formativa a vantaggio degli studenti. Per sbloccare i fondi del «Mof» è pronto un atto d'indirizzo e poi si dovrà aprire una sessione negoziale all'Aran con i sindacati. I tempi per arrivare all'accordo con i sindacati dovranno essere ragionevoli, sottolinea il capo dipartimento del Miur, Luciano Chiappetta: «Ci aspettiamo un'intesa nell'arco di sei mesi».

 


 

  • Bisogna ripartire dal «setaccio» della scuola media

Il problema è anche che le abilità, con antipatica parola inglese le «skills» di cui dispongono i giovani in cerca di un impiego, non rispondono alle richieste dei potenziali datori di lavoro.

Corriere della sera.it, del 14-01-2014, di Orsola Riva

Cornuti e mazziati. In un Paese che ha superato la soglia angosciante del 40 per cento di giovani disoccupati, ora «scopriamo» che il problema non è (o non è soltanto) la crisi del mercato del lavoro sempre più asfittico. Il problema è anche che le abilità, con antipatica parola inglese le «skills» di cui dispongono i giovani in cerca di un impiego, non rispondono alle richieste dei potenziali datori di lavoro. In nessun Paese il disallineamento è così forte: da noi quasi un datore di lavoro su due lamenta di non trovare le competenze giuste di cui avrebbe bisogno. Un dato, in realtà, non così sorprendente. Non solo non facciamo più figli, ma i pochi giovani che abbiamo li perdiamo per strada. È l’esercito dei Neet (not in education, employment or training): oltre due milioni di giovani fra i 15 e i 29 anni che né studiano né lavorano. Alcuni hanno il diploma, altri neanche quello. L’Italia ha il record di abbandoni scolastici in Europa: il 17,6% di alunni (con punte del 25% nel Mezzogiorno) lascia i banchi di scuola troppo presto. Se si vuole capire come mai da noi i giovani faticano tanto a trovare lavoro bisogna risalire la corrente degli studi e ripartire dalla scuola media. Spiega Stefano Molina, dirigente ricercatore della Fondazione Agnelli: «Da noi la scuola media funziona come un setaccio che divide i ragazzi in tre gruppi: i più bravi al liceo, quelli così e così negli istituti tecnici e i più scarsi nelle scuole professionali. Così si uccide la possibilità di fare degli istituti professionali, di cui pure il Made in Italy avrebbe tanto bisogno, una scuola seria». Ma neanche i laureati se la passano bene. Come ha ricordato il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, da noi studiare conviene meno che altrove: è per questo che, complice la crisi (e l’innalzamento delle tasse universitarie) molte famiglie non spronano più i figli a iscriversi all’università e solo il 58% dei diplomati si immatricola (dieci anni fa erano il 73%). La «colpa» è in parte delle università che (come mostrato dalla ricerca sui Nuovi Laureati della Fondazione Agnelli) licenziano dei giovani robusti nelle competenze disciplinari ma scarsi in quelle trasversali (capacità di lavorare in gruppo, di consegnare un lavoro nei tempi prestabiliti ecc.) magari anche perché durante il corso di studi non hanno mai fatto stage o comunque stage davvero utili. In parte però anche di un mercato del lavoro che in Italia sembra essere meno favorevole che altrove ai laureati stessi. «Da noi — spiega Andrea Cammelli di Almalaurea — il 37% dei manager ha solo un diploma di scuola media, mentre in Germania i manager laureati sono la stragrande maggioranza. E, come dimostrato da uno studio recente di Bankitalia, un manager laureato assume tre volte più laureati di un manager che non lo è».

 


 

  • Scatti, la partita non è chiusa

ItaliaOggi ha letto la direttiva inviata dalla Carrozza al Mef sui 370 milioni di copertura. Al prossimo cdm la norma che sterilizza il decreto di blocco

ItaliaOggi, del 14-01-2014, di Alessandra Ricciardi

La direttiva per l'avvio delle trattative, che dovranno dare copertura al pagamento degli scatti di anzianità per l'anno 2012, è pronta. ItaliaOggi l'ha letta: i 370 milioni di euro che servono a pagare gli aumenti, che il Mef aveva disposto di recuperare a colpi di 150 euro al mese, andranno a incidere per 250 milioni sul fondo di istituto.
Gli altri 120 sono quelli disponibili a seguito dei risparmi della riforma Gelmini. Tutto bene allora? Niente affatto. La vicenda degli scatti (si veda ItaliaOggi di mercoledì scorso), dopo il pasticcio politico e burocratico che ha investito il governo, con tensioni tra i due ministri direttamente interessati (Carrozza e Saccomanni) che sono tutt'altro che esaurite, avrà necessità anche di un passaggio al consiglio dei ministri per essere definitivamente risolta. Non basta infatti trovare i soldi a questo punto. Serve anche una norma per sterilizzare il dpr che il consiglio dei ministri di fine agosto ha approvato e che ha prorogato a tutto il 2013 il blocco degli scatti di anzianità. É il decreto che consente tra l'altro al ministro dell'economia, Fabrizio Saccomanni, di dire che la collega dell'istruzione, Maria Chiara Carrozza, non poteva non sapere. Non poteva non sapere che per il 2013 il blocco degli scatti sarebbe andato avanti. Quali sono gli effetti del dpr, in assenza di un intervento normativo correttivo, è spiegato nel servizio in pagina: le retribuzioni resterebbero comunque congelate, con una conseguente perdita di circa 1000 euro l'anno, a causa del permanere del ritardo di un anno nella maturazione del gradone. Già, perché a fronte del ripristino dell'utilità del 2012, sarà comunque cancellata l'utilità del 2013.
Insomma, non basta la sola decisione politica del premier Enrico Letta di non togliere dalle buste paghe di gennaio i 150 euro al mese a recupero degli aumenti già pagati. Così come non basta un accordo tra sindacati e Aran sulle coperture. Serve la norma. Ed è quella che sarà approvata al prossimo consiglio dei ministri. Probabilmente sarà poi presentata come emendamento a un dei decreti in conversione in parlamento. Forse il Milleproroghe. Sta di fatto che ieri una nota di Palazzo Chigi annunciava: «Per quanto riguarda il 2014, il pagamento degli scatti di anzianità potrà essere assicurato a seguito delle decisioni che verranno assunte nel prossimo consiglio dei ministri per gli insegnanti che ne abbiano beneficiato nell'anno 2013».
Una precisazione che conferma anche la gestione tutt'altro ordinata e coerente che la vicenda ha avuto finora. E su cui i due ministeri non hanno affatto riposto le armi in quanto a riffacciarsi le responsabilità. Se per Saccomanni, la collega dell'Istruzione sapeva, visto che l'annuncio del decreto di recupero delle somme era stato dato in un vertice del 9 dicembre scorso, mentre la reazione della Carrozza è del 7 gennaio, è altrettanto vero che l'atto di indirizzo per il recupero delle somme è stato firmato dal ministro dell'istruzione a fine dicembre.
E anche questo era noto all'Economia, che ben poteva risparmiarsi, è il ragionamento fatto a viale Trastevere, una nota di recupero di somme che poi dovevano essere restituite. Ma al di là delle responsabilità dei singoli che hanno lavorato sui dossier ministeriali, il fatto politico è che il governo, che aveva annunciato un cambio di rotta sulla scuola, e che almeno sulla carta gode del consenso elettorale del personale scolastico, ha fatto un autogol mediatico. In queste ore in cui si intensificano le voci di un rimpasto di governo, sia il nome della Carrozza che quello di Saccomanni compaiono nella lista dei candidati alla sostituzione, una lista sempre più lunga. Voci, che secondo rumors di palazzo Chigi, sarebbero in entrambi i casi prive di fondamento.

 


 

  • Si recupera il 2012, ma i salari restano al palo

Tra un decreto (già varato) e un contratto (ancora da fare) ecco come il servizio del 2013 va in fumo

ItaliaOggi, del 14-01-2014, di Antimo Di Geronimo

​Il recupero dei gradoni entra dalla porta ed esce dalla finestra. Le retribuzioni dei docenti e dei non docenti, infatti, rimarranno comunque ferme agli importi in godimento nel 2013. Anche dopo il ripristino dell'utilità del 2012 ai fini dei gradoni, a cui si è impegnato il governo con la trattativa in via di autorizzazione.
Perché il dpr n. 122/2013, approvato a fine agosto dal consiglio dei ministri, prevede la cancellazione dell'utilità 2013. E quindi gli effetti del ripristino 2012, che avverrà dopo la firma di un contratto ad hoc, saranno posti nel nulla dall'applicazione del decreto. In altre parole, il nuovo contratto restituirà ai lavoratori della scuola un anno di anzianità di servizio (il 2012) eliminando il ritardo di un anno nella progressione di carriera (i cosiddetti gradoni). E il decreto 122, cancellando il 2013, riporterà nuovamente indietro di un anno le lancette dell'orologio.
Il risultato sarà quello di cristallizzare le retribuzioni agli importi del 2013. Per comprendere appieno la questione è necessario fare un salto indietro fino al 2010: l'anno in cui è stato emanato il decreto legge 78 dall'allora governo Berlusconi. Il decreto 78, infatti, è il provvedimento con il quale è stata disposta la cancellazione dell'utilità di 3 anni ai fini della progressione di carriera: il 2010, il 2011 e il 2012. Ciò ha comportato il differimento di 3 anni del termine di compimento dei cosiddetti gradoni. E cioè dei periodi di servizio al compimento dei quali si ha diritto ad un aumento di stipendio (circa 100 euro). Facciamo un esempio. Il contratto prevede incrementi stipendiali legati all'anzianità di servizio al compimento dei seguenti periodi: 8, 15, 21, 28 e 35 anni di servizio. L'entrata in vigore del decreto legge 78/2010 ha comportato uno slittamento in avanti di tre anni di tutti i relativi termini di compimento dei gradoni. Il primo è passato da 8 a 11 anni di servizio, il secondo da 15 a 18, il terzo da 21 a 24, il quarto da 28 a 31 e l'ultimo, da 35 a 38 anni di servizio. A seguito del pressing sindacale, l'allora ministro del'economia, Giulio Tremonti, diede l'ok a un decreto interministeriale (14 gennaio 2011) che ha consentito il ripristino dell'utilità del 2010. E quindi, il ritardo nella progressione di carriera si è ridotto da 3 a 2 anni, determinando i seguenti termini di compimento dei gradoni: 10, 17, 23, 30 e 37 anni di servizio.
Il 13 marzo 2013, poi, è stato sottoscritto un contratto ad hoc che, utilizzando parte delle risorse destinate allo straordinario (i fondi del cosiddetto miglioramento dell'offerta formativa), ha ripristinato l'utilità del 2011, determinando un'ulteriore diminuzione di un anno del ritardo nella maturazione dei gradoni. Così, per effetto di tale accordo, i termini di compimento dei gradoni sono passati a 9, 16, 22, 29 e 36 anni di servizio. Grazie al contratto del 2013, dunque, circa 80mila lavoratori avevano maturato i gradoni, sebbene in ritardo di un anno: una prima tranche con effetti nella busta paga di maggio 2013 e una seconda tranche con effetti nella busta paga di settembre.
Fermo restando che restava comunque da recuperare ancora il 2012. Per il quale è attualmente in corso una trattativa. Senonché, il 25 ottobre scorso è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il dpr 122/2013, che cancella anche l'utilità del 2013, di fatto, ponendo nel nulla gli effetti del recupero del 2011. E proprio per effetto di questo provvedimento il mineconomia stava per riprendersi i soldi già versati ai lavoratori che avevano maturato il gradone nel 2013.
Poi, però, il governo ha fatto dietrofront. Perché, comunque, quando verrà stipulato il contratto per il ripristino del 2012, il ritardo nella maturazione dei gradoni ritornerà ad essere di un solo anno.
E quindi si ritornerà alla situazione precedente all'entrata in vigore del decreto 122, prima del ripristino del 2012. Insomma, con una mano il governo intende ridare ciò che ha tolto e con l'altra intende riprenderselo. 

 


 

  • La ministra accusa i burocrati. L’allarme (inascoltato) dei sindacati

In realtà a volere sapere, i due ministri avrebbero potuto sapere. «Da novembre abbiamo denunciato sul nostro sito la possibilità che lo Stato avrebbe bussato alle porte dei lavoratori della scuola per chiedere soldi», dice Domenico Pantaleo

Corriere della sera.it, del 09-01-2014

La ministra Carrozza ieri ha rinviato la sua partenza per Washington. Ha quindi parlato di «impicci burocratico amministrativi» e ha detto che questi avvengono «a volte senza che i ministri e il governo ne sappiano niente». Da una parte, Carrozza si mostra vittima in comune con Saccomanni. Dall’altra, ammette che il ruolo politico rischia, talvolta, di essere irrilevante. La burocrazia dell’Economia ha avvertito la burocrazia dell’Istruzione senza che nulla sia avvenuto a riparare quello che politicamente era per forza un errore. Carrozza ieri ha appreso questa lezione e la proclama: «La filiera tra la decisione politica e l’attuazione deve essere corta. Non è pensabile che da una parte si decidono le cose e dall’altra come e quando si pagano gli stipendi».
In realtà a volere sapere, i due ministri avrebbero potuto sapere. «Da novembre abbiamo denunciato sul nostro sito la possibilità che lo Stato avrebbe bussato alle porte dei lavoratori della scuola per chiedere soldi», dice Domenico Pantaleo, Cgil scuola. Il 30 novembre si svolge una manifestazione dei sindacati della scuola e il pericolo viene gridato dal palco. Massimo Di Menna, Uil scuola, racconta: «Sono venuto a conoscenza della nota del ministero dell’Economia il 27 dicembre. Il 29 dicembre ho cercato Carrozza per avvertirla che s’addensava una enorme nube. Mi hanno detto: è in Consiglio dei ministri. Il 3 gennaio ho scritto alla ministra per pregarla di affrontare il caso. Nessuna risposta». Lo stesso 29 dicembre l’allarme appare anche sul sito della Cisl.
Ecco, la Cisl. Il segretario generale Bonanni ha chiesto ieri sera di indagare su cosa c’è dietro «questa incuria o sciatteria di Saccomanni, una sciatteria politica. Chi ha preparato questa polpetta avvelenata? Potrebbe essere un caso creato dolosamente da qualcuno al ministero? Non sarebbe la prima volta». Proviamo a capire. Un’ipotesi è che nelle stanze della Ragioneria generale qualche alto dirigente complotti per far fuori il ministro e lo trascini in questo guaio. La seconda ipotesi è che nelle stesse stanze si sia tentata una vendetta contro gli «scatti di anzianità», che ormai sono un diritto solo per militari, giornalisti e personale scolastico. Carrozza ha avviato un’indagine nel suo ministero, per capire chi ha deciso di non avvertire i ministri di ciò che stava per accadere.
E adesso? Ce la faranno all’Economia a correggere gli stipendi di gennaio? Dove troverà il ministero dell’Istruzione gli oltre cento milioni per «rimborsare» l’Economia? Quasi certamente sottraendoli al Mof, i fondi destinati alla formazione, ai corsi di recupero, alle supplenze, all’autonomia scolastica. Con buona pace del risanamento della scuola pubblica.
agaribaldi@corriere.it.

 


 

  • «Insegnanti marginalizzati e trattati come fornitori di servizi»

Intervista al prof. Vertecchi

Il Messaggero, del 09-01-2014, di Angela Padrone

L’INTERVISTA
ROMA Professor Vertecchi che ne dice di questi insegnanti ai quali stavano per chiedere addirittura il rimborso degli scatti d’anzianità?
«Stavolta si è proprio esagerato. Già non hanno una carriera...» Il professor Benedetto Vertecchi, ordinario di Pedagogia a Roma Tre, di professori si occupa da una vita e ne conosce pregi e difetti .
Ecco, appunto: l’unico modo in cui un insegnante può vedere il proprio stipendio crescere in Italia è con gli scatti di anzianità. Non è prevista una carriera fatta di crescita professionale?
«No, le organizzazioni sindacali hanno sempre considerato improponibile l’articolazione delle carriere»
Anche negli ultimi anni però i rappresentanti degli insegnanti non hanno visto di buon occhio le forme di valutazione, come i test Invalsi, che forse potevano servire a giudicare un lavoro ben fatto oppure no
«Da noi la valutazione viene sempre considerata ”un bastone da maresciallo”, cioè un’attività che serve a sanzionare, invece che a produrre un’attività conoscitiva. D’altra parte anche loro hanno le loro ragioni, perché le condizioni di partenza non sono uguali in tutte le scuole e in tutte le aree. Perché i risultati al Sud sono peggiori che al Nord? Ma perché c’è tutta una storia dietro. Invece ora è invalsa una logica economicistica che appiattisce tutto»
Però ci si lamenta sempre che all’estero gli insegnanti vengono pagati meglio
«In realtà ai livelli iniziali non c’è molta differenza tra noi e altri. Il problema è che poi in altri paesi l’insegnante può fare carriera e quindi cresce anche lo stipendio»
E come avviene questa progressione di carriera?
«In Francia per esempio si entra tutti a un primo livello e dopo la maggior parte passa a un secondo livello, attraverso una serie di accertamenti, dove si ottiene anche uno scatto sostanzioso. Poi c’è una piccola percentuale, un 5%, che riesce a passare al terzo livello, dove gli insegnanti hanno anche compiti di formazione professionale e di ricerca e hanno una retribuzione decisamente più alta».
La possibilità di crescere professionalmente è fondamentale anche al livello personale no?
«Certo. Ma gli insegnanti non si sono mai sottratti. Gli sono stati fatti molti torti. Il principale è che è stata loro sottratta la formazione professionale di altri insegnanti (come avviene invece in tutte le categorie, pensi agli avvocati che fanno pratica negli studi o ai giornalisti che fanno il praticantato nei giornali) e sono stati messi in posizione di subalternità alle università, dove ci sono a volte dei “formatori” che non si sa dove siano stati pescati»
Lei sta dicendo che gli insegnanti sono vessati?
«Sì, sono stati marginalizzati e al tempo stesso inseriti in una organizzazione del lavoro dove hanno poca voce in capitolo. Il lavoro di insegnante è uno strano lavoro: sono dei lavoratori intellettuali che invece vengono trattati come dei fornitori di servizi. E allora torniamo al discorso della carriera. Che carriera può venire fuori così? Si chiede a tutti la stessa prestazione!»
Da quello che dice lei la valutazione del lavoro diventa sempre più difficile. Come si può fare?
«Starei attento a certe logiche aziendali che adesso vanno di moda. Nel lavoro dell’insegnante, per così dire la parte “emersa” è minore di quella “sommersa”. Per giudicare il lavoro di un insegnante su un ragazzo e capire se è stato efficace bisogna aspettare 10, 20, anche 30 anni. Soprattutto ora che la vita professionale è soggetta a molti cambiamenti. Una semplice batteria di test purtroppo non basta».

 


 

  • Per rimediare si taglieranno i fondi agli istituti

Si chiama miglioramento dell’offerta formativa, la sigla è Mof, ed è da qui che saranno prelevate gran parte delle risorse economiche per pagare lo scatto d’anzianità agli oltre centomila, tra insegnanti e ausiliari della scuola, che lo avevano maturato nel 2012

Il Messaggero, del 09-01-2014, di A. Cam.

I CONTI
ROMA Si chiama miglioramento dell’offerta formativa, la sigla è Mof, ed è da qui che saranno prelevate gran parte delle risorse economiche per pagare lo scatto d’anzianità agli oltre centomila, tra insegnanti e ausiliari della scuola, che lo avevano maturato nel 2012. Il Mof racchiude quelle risorse che vengono utilizzate dalle scuole per le attività extra didattiche (dai corsi di teatro e musica allo sport), per il pagamento delle ore di supplenza, per i docenti che rivestono particolari ruoli nelle scuole, per le retribuzioni accessorie degli insegnanti e per il Fondo di istituto (il Fis). È il Mof la voce che verrà inevitabilmente penalizzata dal dietrofront del governo? La somma è stata già individuata dal ministero dell’Istruzione (Miur), d'intesa con il ministero dell’Economia (Mef). Per la copertura degli scatti di anzianità del 2012 sono necessari circa 380 milioni di euro, lo stesso importo dell’anno precedente. Di questi, quasi 100 milioni verranno coperti dalle economie ottenute con i tagli agli organici. Una legge dell’allora ministro Tremonti, che per la prima volta ha previsto il blocco degli scatti, fissava che il 30% di queste risorse sarebbero dovute andare a coprire proprio gli scatti di anzianità.
UN MARGINE DI PRECAUZIONE
La restante parte, circa 280 milioni di euro, viene coperta dal Mof. Mof che complessivamente ammonta a 980 milioni di euro per questo anno scolastico. E proprio per coprire questa spesa, fino ad ora ai presidi è stata assegnata solo la metà dell’importo disponibile. Una precauzione per avere un margine di disponibilità nel caso la trattativa all’Aran con i sindacati diventasse più onerosa del previsto. La trattativa dovrebbe essere conclusa a breve. Proprio a fine dicembre, infatti, il ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, ha firmato l’Atto di indirizzo da portare sul tavolo del confronto con i sindacati.? «Questo spiega il paradosso del recupero che si stava facendo sugli scatti – commenta Rita Frigerio della Cisl scuola –. Le risorse ci sono. Si trattava solamente di avere pazienza e di chiudere la trattativa».
IL BLOCCO DI BERLUSCONI
A bloccare per la prima volta la progressione economica degli stipendi degli insegnanti è stato il governo Berlusconi, nel 2010. Stipendi fermi per tre anni, fino al 2012. Anche se poi gli scatti vennero comunque pagati dopo un tira e molla con i sindacati. Nel 2010 l’operazione costò circa 300 milioni di euro. Recuperati tutti dalle economie derivanti dai tagli agli organici. L’accordo per il 2011 fu trovato ricorrendo all’Aran, ma con la Flc Cgil che prese le distanze. Perché per coprire i 380milioni di euro di costo dell’operazione si fece ricorso al Mof. La scuola, così, è sacrificata sempre.

 


 

  • «Non è vero che fossi informata dall'inizio. Hanno fatto tutto tra Natale e Capodanno»

Maria Chiara Carrozza «Non voglio, né chiedo le dimissioni del ministro Saccomanni. Sulla scuola non va la catena di comando tra Funzione pubblica, Miur e Finanze»

l'Unità, del 09-01-2014, di NATALIA LOMBARDO (@NataliaLombard2)

In un tweet è stata la stessa ministra dell'Istruzione Maria Chiara Carrozza ad esultare: «Finita la riunione a Palazzo Chigi. Gli insegnanti non dovranno restituire i 150 euro, sono soddisfatta per gli insegnanti». La detrazione è stata fermata. Ma come è potuto accadere questo pasticcio? «È possibile perché in passato si è proceduto con i blocchi degli scatti degli insegnanti o dei dipendenti pubblici per ricavare risparmi. La storia è legata a una stratificazione delle norme di contenimento della spesa pubblica che hanno toccato la scuola e che hanno previsto per il 2010, 2011, 2012 il blocco degli scatti di anzianità. Poi, dopo il governo Monti è stata aperta la finestra del 2013». Il ministro dell'Economia, Saccomanni si dice solo un «mero esecutore» delle indicazioni sulle retribuzioni arrivate dal Ministero dell'Istruzione e che il 9 dicembre vi aveva informato sulla richiesta delle somme agli insegnanti. Insomma, il ministro la attacca. Per lei invece di chi è la colpa? «Ah no, io non sono abituata a scaricare la responsabilità su nessuno e non voglio che questa polemica continui, perché non è interesse del governo, né della scuola, per cui non replico a questi comunicati. È evidente che non va la distribuzione tra Funzione Pubblica, Istruzione e Economia, della responsabilità sugli insegnanti e sulla loro retribuzione. La cinghia di trasmissione non funziona, bisogna rivederla». Sta scoppiando un caso anche sul personale non docente? «Anche il personale Ata può stare tranquillo perché proprio in queste ore stiamo lavorando sia sui non docenti che sugli insegnanti». C'è chi vorrebbe le dimissioni del ministro Saccomanni. Lei è d'accordo? «No. E non le ho mai chieste. Saccomanni sta affrontando una situazione estremamente difficile da quando ha iniziato il suo mandato. Il tema non è questo, ma lavorare insieme per far funzionare meglio la macchina amministrativa». Cosa risponde a chi dice che eravate informati? «Non voglio alimentare ulteriori polemiche, l'importante è aver trovato una soluzione al problema. E continuare a lavorare insieme al governo e al Pd per la scuola e l'istruzione». Insomma, di chi è la responsabilità di ciò che è successo? «Sarà avviata un'analisi interna, per capire dove è saltata la comunicazione, poi vedremo. Di sicuro dovrà cambiare il processo decisionale». Un groviglio burocratico sulla pelle degli insegnanti. È accaduto perché nel 2013 sono stati sbloccati gli scatti? «Non proprio, a settembre è stato approvato un Dpr che blocca la contrattazione e gli scatti a tutto il 2014, in applicazione di una normativa approvata dal governo Monti. Essendo le norme entrate in vigore a novembre, fino ad allora gli scatti maturati erano stati pagati. Quindi il problema che si è posto è come evitare che gli insegnanti dovessero restituire le somme percepite. Si sarebbe dovuto affrontare tutti insieme questo nodo, invece il 27 dicembre abbiamo appreso che è stata messa on line l'informazione agli insegnanti: restituirete sulla busta paga del 2014 quello che avete avuto. Senza neanche aver saldato ciò che spettava nel 2012». Non se ne era accorta? «Sono stati presi questi provvedimenti tra Natale e Capodanno, per inerzia amministrativa e senza comunicare ai ministri competenti che cosa stava avvenendo. Ma appena sono tornata operativa al 100 per cento ho affrontato il tema e ho chiesto a Saccomanni di sospendere la detrazione. Gli avevo già inviato la lettera quando sono scoppiate le polemiche». Un'altra grana per il premier Letta. «Il presidente Letta era presente oggi (ieri) alla riunione, abbiamo trovato insieme una soluzione politica e amministrativa. Perché la differenza con chi sta al governo e chi sta fuori è che chi sta a Palazzo Chigi deve trovare soluzioni legislative e gestionali in breve tempo. In questo caso si doveva anche evitare che il sistema informatico avviasse il prelievo sugli stipendi. Ce l'abbiamo fatta, ma appena in tempo». Con quali risorse? «La scuola è all'osso e non è facile trovare le risorse, togliere fondi di qua o di là. I lavoratori del mondo della scuola sono 800mila circa, tra docenti e personale Ata, io affronto un'emergenza al giorno, dai lavoratori socialmente utili agli insegnanti, che guadagnano davvero poco. E complesso, considerando che si sono fatti risparmi tagliando le spese per la scuola». È soddisfatta delle risorse che il governo sta dedicando alla scuola? Sarà un tema del patto di coalizione? «Sì, abbiamo presentato la nostra agenda per il patto di coalizione; ma rivendico che come governo abbiamo già ricominciato a investire per l'edilizia scolastica, i programmi. Sono soddisfatta, vuol dire che il governo ci pensa. Presto partirà la costituente della scuola, per la quale avvieremo una grande consultazione». E per la ricerca e l'Università? «Il bilancio comincia a migliorare: per l'Università abbiamo 191 milioni in più per il 2014. Per la ricerca sta per partire il piano nazionale». Però questo governo sta facendo molti scivoloni, o marce indietro: la web tax, le slot machina, ora gli insegnanti. O no? «Non stiamo facendo né scivoloni, né marce indietro. Non mi piace questa formulazione: avere la responsabilità delle riforme, preparare il semestre europeo, far funzionare la macchina dopo i tagli subìti, non è facile. Diciamo che il governo ha affrontato il tema». Diciamo che il governo l'ha causato. «Il governo ha affrontato il tema e l'ha risolto». Renzi non ne fa passare una al governo e su questo caso è intervenuto con forza. Si è sentita appoggiata o criticata? «Dal punto di vista politico c'è qualcuno che sta cercando di destabilizzare. Il clima non è sempre positivo, ma sta a noi della maggioranza valorizzare ciò che il governo ha fatto. In questo caso con il Pd, il segretario e il responsabile scuola avevamo la stessa linea e non troverà una parola contro di me. Sono grata a loro perché si occupano di scuola, e fanno il loro mestiere».

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